Assalto alla Commercio, secondo l'avvocato Luigi Mattei non è affatto scontato che l'imputato sarebbe passato ai fatti in caso di mancato arresto
“È stato fermato perché ha voluto essere fermato”, “ha fatto di tutto perché lo fermassero”.
Questo il fulcro della linea difensiva dell’avvocato Luigi Mattei, nel processo per la sventata strage del maggio 2018 alla Scuola cantonale di commercio di Bellinzona. Nella sua arringa l’avvocato prende di petto l’accusa di atti preparatori di assassinio plurimo, riconoscendola ma sostenendo a mo’ di attenuante che il passaggio dalle parole ai fatti sarebbe stato tutt’altro che scontato. Accennando inoltre alla perizia psichiatrica che ravvisa una scemata imputabilità di grado medio, chiede per il suo imputato una pena che tenga conto di tutte le attenuanti, ma soprattutto garantisca la possibilità di poter continuare il suo percorso terapeutico e lavorativo all’interno di un foyer.
Per l’avvocato “il passaggio all’atto era tutt’altro che scontato”: un po’ perché quei piani erano meno dettagliati di quanto vorrebbe l’accusa – sostenuta dal procuratore pubblico Arturo Garzoni –, ma soprattutto perché la pianificazione stessa sarebbe stata anzitutto un grido d’aiuto, come se l’avviarsi verso la strage fosse al contempo un modo per farsi scoprire, lanciando messaggi e segnali. Lo dimostrerebbe il fatto che i comportamenti del giovane abbiano sollecitato ben tre diverse segnalazioni alle autorità da parte di compagni e insegnanti nei giorni precedenti l’arresto, ma anche il tentativo di chiamare il Telefono amico.
Anche la lettera a una sua ex del 2016 – pur piena di allusioni a uccisioni e stragi – sarebbe solo una specie di esorcismo delle sue stesse pulsioni: “Tutto si era esaurito nell’immaginazione, nello scrivere, nel progettare”. La controprova: gli atti efferati programmati per il novembre di quell’anno non si sono mai concretizzati.
L’avvocato Mattei ha inoltre ribadito che il ragazzo sarebbe ormai consapevole della gravità di quanto accaduto, e ha sottolineato come anche la crisi che ha portato a un ricovero psichiatrico l’anno scorso riveli quanto il 21enne sia in grado di riconoscere prontamente il riemergere di pensieri e comportamenti suicidi, e di chiedere aiuto. Certo, all’inizio – soprattutto dopo la difficile esperienza di un primo contenimento alla Clinica psichiatrica cantonale di Mendrisio – l’imputato si era dimostrato diffidente nei confronti di un percorso di carattere psichiatrico e psicoterapeutico. Ma per il difensore quella è acqua passata: ora “ha capito quel che c’è da capire, che per lui c’è bisogno della psichiatria, di andar dentro a quel suo orgoglio” inizialmente ferito dalle ‘incursioni’ dei medici.
Come ulteriore attenuante, Mattei ha contestato la tesi secondo la quale l’accumulazione di armi sarebbe cominciata già nell’ottica di effettuare una strage. Al netto dei lasciti familiari, l’acquisto di gran parte dell’arsenale risalirebbe a novembre 2017, mentre l’avvocato ritiene che il piano per l’assalto sia conseguente a una crisi psichica ben posteriore: quella che nell’aprile dell’anno successivo, a poco più di un mese dall’arresto, fu scatenata da ulteriori episodi di natura sentimentale. Sempre a proposito di armi, l’avvocato ha ricordato che anche il Kalashnikov e il semiautomatico AR-15 Smith & Wesson – arma designata per la strage – non sono comunque “armi a ripetizione, una mitragliatrice come quelle che si vedono nei film”.
In ogni caso la difesa non ha contestato l’accusa di atti preparatori di assassinio plurimo (il procuratore aveva chiesto il massimo, sette anni e mezzo, con sospensione per un trattamento). Piuttosto, ha chiesto di calibrare la pena a questo contesto nel quale la strage parrebbe tutt’altro che inevitabile e la psiche dell’imputato disturbata. E infatti quello che conterebbe di più, al di là della pena, sarebbe la prosecuzione del percorso già iniziato al foyer in Svizzera romanda dove si trova ora. Certo, non spetta alla corte decidere direttamente la struttura di trattamento, ma intanto sarebbe importante creare i presupposti giuridici per continuare quel percorso: un lavoro su di sé che combina l’aiuto psichiatrico stazionario alla “costruzione di un progetto professionale”, giudicato fondamentale anche dalla perizia psichiatrica: è infatti perdendo il suo apprendistato nel 2014 che l’imputato ha iniziato a scivolare in una crisi sempre più profonda.
Quella dell’assegnazione al foyer nel settembre 2018 – invero prima ancora della perizia, come ha contestato ieri il presidente della corte delle Assise criminali di Bellinzona Mauro Ermani – “a conti fatti è stata una soluzione felice” secondo Mattei, per il quale è importante che “ciò che è iniziato possa essere portato a conclusione”. Il tutto nella consapevolezza che “le cose mostruose che l’imputato ha detto, che ha fatto, che ha scritto, non sono in ogni caso l’esito di un uomo mostruoso, ma piuttosto di un ragazzo precipitato in un vortice, impaurito, che cerca disperatamente di alimentare l’odio che aveva per se stesso e di sfogarlo anche sugli altri, incapace di uscire da questa sorta di trappola in cui era venuto a trovarsi”, quella della dicotomia tra l’apparenza del successo scolastico e il senso di fallimento interiore. “Un ragazzo disperato, inascoltato, incompreso, che ha vissuto un periodo quasi di maledizione”.
Prima della chiusura della seduta, proprio il ragazzo ha preso brevemente la parola per congedarsi: “Ci tenevo a chiedere scusa – ha detto – a tutti coloro che ho messo in pericolo, a cui ho fatto paura e che si sono sentiti male a causa mia: mi dispiace”.
La sentenza è attesa per domani pomeriggio alle ore 16.