Commento

I telefonini fuori dalla scuola, le canne fuori casa

Non vogliamo dei giovani robot. Per questo serve coerenza da parte di tutti: politica, genitori e docenti. La decisione del Gran Consiglio non è sufficiente

Ci sono diverse cose da spegnere (Ti-Press)
20 febbraio 2020
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Che i telefoni dei ragazzi debbano essere spenti a scuola ci sta. Ma non è sufficiente. Non lo è soprattutto se il nostro scopo è quello d’insegnare ai nostri figli che la tecnologia deve essere uno strumento al loro servizio e non viceversa. La decisione presa dal Gran Consiglio risolve il problema? Non proprio. Resta l’impressione che questa misura non basti per arginare i rischi dell’uso sbagliato del telefonino da parte dei giovani, vedi i vari casi di cyberbullismo e via dicendo. Qui il lavoro da fare è tanto ed è arduo. E inizia soprattutto in casa.

Ma è anche possibile fare un’altra riflessione, che si collega in qualche modo a questo nostro compito educativo nei confronti delle nuove generazioni. Non vogliamo dei giovani robot, molto bene. Dunque se questo è l’obiettivo, a scuola, oltre a spegnere i telefonini, bisognerebbe pure spegnere certi modi d’insegnamento che, volente o nolente, costringono i ragazzi a diventare degli hard disk pieni di dati, senza avere nessuna idea di come utilizzarli. Faccio un esempio: se al test di geografia il docente continua a chiedere agli allievi d’imparare a memoria i nomi di tutti gli Stati e le rispettive capitali dell’Europa dell’Est, non c’è da stupirsi se poi il ragazzo, nella pausa prima dell’esame, tira fuori il telefonino (di nascosto a questo punto) e va a cercarsi le risposte su Wikipedia. Dovremmo sempre ricordarci che invece ci sono risposte che non si trovano sul cellulare. È questa l’opportunità che ci resta per fare capire ai giovani che la varietà e velocità delle sinapsi vengono sempre prima della varietà e velocità del modello di cellulare che hanno nella cartella.

Proposta di domanda alternativa: “Spieghi le cause che secondo lei hanno determinato la riconfigurazione della cartina dell’Europa negli ultimi quarant’anni. E tenga pure aperta la dispensa con tutti i nomi dei Paesi e delle loro capitali”. Ripeto, è un esempio. Ma il concetto è questo: più volte i docenti riusciranno a fare le domande che invitano i ragazzi a riflettere, più loro potranno capire che la tecnologia è uno strumento potentissimo ma non assoluto. Lo capiranno perché lo sperimenteranno. Così forse l’obiettivo che ha animato l’ultima seduta del parlamento potrebbe diventare più facilmente raggiungibile, considerando che inasprire le regole sul (non) uso del natel a scuola è un mezzo volto a tutelare i ragazzi e a favorire un loro sano sviluppo.

A proposito del parlamento, non può comunque passare inosservato (e stride parecchio) che il Gran Consiglio che ha adottato questa misura sia lo stesso che il giorno prima si è rifiutato di entrare in materia sul rapporto di maggioranza della Commissione formazione e cultura, inerente ai doveri di sorveglianza dello Stato sulle scuole private. Ma come? Lì non vale la regola di tutelare il percorso dei ragazzi? Sono talmente forti le lobby degli istituti scolastici privati, perlopiù d’ispirazione religiosa, che vogliono tenere lontano “l’intruso” dai loro piani finanziari? (Oh mamma, dubbio homerico: questo l’ho detto o l’ho pensato?).

In fondo questa cosa dei telefonini spenti a scuola mi fa ricordare la storia di un mio amico che l’altro giorno ha sgridato duramente suo figlio, facendo un gran casino nel palazzo in tarda serata. La mattina dopo la vicina gli ha chiesto: “Scusi, ma cosa è successo ieri a casa sua? Le sue urla si sentivano fino al decimo piano…”. “Mi dispiace molto signora – ha risposto l’uomo –. Sono tornato a casa e ho trovato mio figlio con un compagno a fumare canapa in camera”. “Oddio, non ci posso credere. Suo figlio fuma marijuana?”. “Sì, ma questo lo sapevo già. Il problema non è che fuma. Il problema è che gli avevo proibito di farlo in casa”.

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