Commento

Giù alla fattoria di Max Yasgur

Tanta era l’utopia che oggi Woodstock, più che la ‘tre giorni di pace, amore e musica’ pare un’episodio di ‘Black Mirror' (cercando l'hippy che è dentro di noi)

Bethel, agosto 1969 (Keystone)
13 agosto 2019
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“Il girato sarebbe stato perfetto per un film di sette ore”. Seduto su di una piattaforma a due metri e mezzo da terra, alla destra del palco, poco sotto un grappolo di amplificatori, il giovane Martin Scorsese è tra i montatori del documentario che racconterà il raduno di Woodstock. È da lì, con la visuale su palco e pubblico, che si accorge che l’happening sotto i suoi occhi non sarà un fine settimana come gli altri. “Fu di venerdì – scriverà anni dopo sulle pagine del ‘Sunday Times’ – che capimmo di essere coinvolti in qualcosa di più di un concerto rock”. Definirà quel film “un azzardo”, soprattutto per un’epoca in cui il cinema applicato all’evento musicale andava poco oltre le telecamere fisse. Un azzardo dalle inquadrature multiple nel quale le nudità del pubblico, la pioggia purificatrice, il senso di comunità, l’assenza di polizia e di violenze – una sola overdose fatale su 400mila anime, in un momento in cui lo sballo era religione, e un secondo decesso, ascrivibile all’imprevisto – sono più trasgressive di qualunque esibizione, bizza da star, costume di scena.

Grazie a quel documentario, il mondo intero vivrà in modo proto-social una sorta di “lo spettacolo lo fate voi”, idea che oggi è un mezzo imbroglio perché il pubblico pretende e gli artisti obbediscono, e invece a Woodstock andava bene tutto, che fosse un sitar, l’invocazione di un santone indiano, il latin rock di Santana o le parole dei songwriter (anche senza Bob Dylan); quel pubblico ancora se ne fregava dei piedistalli sui quali l’industria del rock, intuito che i giovani erano mercato, di lì a un paio di anni si spenderà nel trarre – dai piedistalli, col prodotto ben saldo alla base – il massimo profitto.

Il resoconto per immagini di Woodstock varrà al regista Michael Wadleigh un Oscar nel 1971, prima dell’oblìo seguito all’horror con rimandi ecologisti ‘Wolfen, la belva immortale’ (1981). Quanto a Scorsese, dirigerà ‘The Last Waltz’, concerto d’addio di The Band, con lo stesso taglio ‘umano’ di Wadleigh. E quanto a ‘Woodstock’, il documentario, dice ancora il montatore del tempo: “Quello che il film ha fatto e continua a fare è distillare l’esperienza, e tenerla viva”.

Ed è proprio per tenere viva l’“esperienza” – termine che fa la felicità degli uffici del turismo – che alle pagine 2 e 3 abbiamo provato a ricostruire un evento che oggi rivive nel museo di Saugerties, a poche miglia dal palco. Un’esperienza iniziata anni prima, nella quale confluirono l’estate dell’amore, il Monterey festival, la California in pieno flower power, l’America che spediva i propri figli a morire in Vietnam, e che in Vietnam continueranno a morire anche dopo Woodstock, e molto altro. Sui seicento acri di Max Yasgur, dove si tenne il concerto, soffiava ancora, ancor più dopo ‘Sgt. Pepper’s’, il vento dei Beatles; era ancora, per dirla con Assante e Castaldo, il tempo in cui “l’underground era al potere”, e la migliore musica era anche la più venduta. Un tempo in cui Charles Manson non era l’ideale hippie putrefatto, ma solo l’altra faccia della medaglia delle rivoluzioni, che si tratti di pacifismo o di tecnologia.

La San Francisco in fiore cantata in ogni strofa e in ogni riff, da Scott McKenzie ai Mamas & Papas, oggi fa tenerezza per la sua purezza di fondo; tanta era l’utopia che oggi Woodstock, più che la ‘tre giorni di pace e musica’, pare un episodio di ‘Black Mirror’. Eppure, c’è un hippy in ognuno di noi quando facciamo qualcosa infischiandocene dell’immediato tornaconto, quando vestiamo patchwork e non è carnevale, e quando ormai certi che una canzone non cambierà il mondo, riusciamo a sentirci felici anche per tre minuti e trenta secondi, attendendo che la radio torni a passare ‘With a little help from my friends’ per intero.