La sfiducia nelle classi dirigenti non è cosa nuova, ma la recente comunicazione politica aggrava il problema
Crisi economica. Inceppamento del modello neoliberista. Inadeguatezza delle classi dirigenti. Potere politico sempre più tecnocratico e distante. Le ragioni addotte per la crisi di fiducia nella cosiddetta élite sono tante e continuano a moltiplicarsi. In ciascuna c’è qualcosa di vero. Come è vero – lo ha notato meglio di tutti Alessandro Baricco su ‘Repubblica’ – che quella stessa élite non ha saputo reagire alla perdita di legittimazione, all’erodersi di quella fiduciosa delega sulla quale poggia la democrazia rappresentativa. Anzi “si è irrigidita nelle proprie certezze allestendo rapidamente una narrazione che mettesse le cose a posto: la gente si era bevuta il cervello, probabilmente manovrata da una nuova generazione di leader privi di responsabilità… Sullo sfondo, una certezza: There Is No Alternative, ripetuta come un mantra, coltivata come un’ossessione, inflitta come una profezia e una minaccia”. Col risultato che si è allargato ulteriormente il solco fra l’uomo comune e ‘loro’ (“Il medico, l’insegnante universitario, l’imprenditore, i dirigenti dell’azienda in cui lavoriamo, il Sindaco della vostra città, gli avvocati, i broker, molti giornalisti, molti artisti di successo, molti preti, molti politici, quelli che stanno nei consigli d’amministrazione, una buona parte di quelli che allo stadio vanno in tribuna, tutti quelli che hanno in casa più di 500 libri: potrei andare avanti per pagine, ma ci siamo capiti”).
Noto però che tutte queste tendenze non sono cosa recente. Già a metà degli anni Novanta si parlava di crisi dei partiti storici, smarrimento della classe media, sfiducia nella politica. Il popolo dei fax e le monetine su Craxi, l’avanzata della Lega dei Ticinesi e di quella italiana, l’affermazione dell’ultradestra di Jörg Haider in Austria e del primo lepenismo, il populismo americano di Ross Perot risalgono a venti e passa anni fa. Fenomeni già allora ampiamente notati, studiati, e subito accostati alla globalizzazione tecnocratica delle classi dirigenti: ‘La rivolta delle élite’, il seminale saggio sul tema di Christopher Lasch, è del 1995. Nel frattempo si è aggiunta la Grande Recessione, certo, ma è meglio non esagerarne l’incidenza: secondo un enorme sondaggio condotto a livello europeo dal Pew Research Center, la percezione della situazione economica influenza molto poco la condivisione o meno dei Leitmotiv nazional-populisti, ad esempio quelli etnocentrici e islamofobi.
Andando per esclusione, si direbbe quindi che l’ultima spinta a questa crisi l’abbia data un fattore solo in apparenza neutrale: la tecnologia. Baricco lo nota con una certa equanimità: “Oggi, con uno smartphone in mano, la gente può fare, tra le altre cose, queste quattro mosse: accedere a tutte le informazioni del mondo, comunicare con chiunque, esprimere le proprie opinioni davanti a platee immense, esporre oggetti (foto, racconti, quello che vuole) in cui ha posato la propria idea di bellezza. Bisogna essere chiari: questi quattro gesti, in passato, potevano farli solo le élite”. Siccome però a questa apertura non corrisponde una redistribuzione della ricchezza – e della conoscenza necessaria per elaborare la nuova valanga di informazioni, aggiungo io – i nuovi canali di comunicazione sono diventati camera d’eco del risentimento. Un aspetto sul quale invece Baricco si sofferma poco è la ‘natura’ di questa nuova accessibilità, che oggi prende anzitutto la forma dei social network. Per la prima volta i veri ‘signori’ dell’informazione non sono gli editori, i direttori editoriali e perfino i giornalisti, bensì le piattaforme che ne cooptano i contenuti: Facebook, Twitter, Instagram e così via. Il funzionamento di queste società è essenzialmente lo stesso di agenzie pubblicitarie: i loro ricavi dipendono dalla capacità di fare incontrare degli inserzionisti – inclusi i media che vi postano i loro contenuti, ahinoi – con un pubblico mirato. È come se anche un articolo di giornale dovesse occupare gli stessi spazi un tempo riservati alla pubblicità, e seguirne le medesime logiche; è dunque piuttosto ovvio che il messaggio veicolato debba essere semplice, emozionante e a misura d’utente. Una necessità resa ancora più stringente da un mezzo che incoraggia la bulimia informativa, il rapido saltabeccare da una lettura all’altra, la sovraesposizione a milioni di messaggi diversi. Come ha notato Jamie Bartlett sul ‘Guardian’, “una società basata sulla stampa, pur con tutti i suoi difetti, tende almeno a un certo ordine e coerenza di fatti e idee. I social media sono costruiti secondo una logica differente: anneghiamo nelle rapide di idee, storie, fatti e dati dissonanti. Troppo materiale per poterlo gestire razionalmente.” Il risultato è uno stato di costante distrazione, almeno potenziale; e “una nazione distratta preferisce le certezze emotive alle sfumature di grigio. Si tratta di debolezze umane, ma i social media le hanno trasformate in una caratteristica strutturale del consumo di informazioni, e le hanno sfruttate per guadagnarci sopra”. Ora: incolpare i social media per i mali del mondo è un tic fin troppo frequente, che non di rado nasconde una buona dose di pigrizia intellettuale. Un uso oculato di questi strumenti permette anche di accedere a contenuti pregevoli, che altrimenti non si sarebbero notati (nel mio caso, ad esempio, l’articolo del ‘Guardian’). Vedo però una stretta correlazione fra questi mezzi e l’involuzione dei messaggi in senso pubblicitario e propagandistico.
Il risultato è una comunicazione politica che, come nota lo stesso Baricco, è “un misto di schiettezza, aggressività, urlo da mercato e slogan pubblicitario”. Il meccanismo è talmente potente e consolidato, che bastano poche parole per scatenare nell’(e)lettore feroci riflessi pavloviani, come dimostra la sfilza di commenti tutti uguali sotto qualsiasi titolo che contenga parole quali migranti, Trump, Salvini, Saviano. Un andazzo del tutto impervio al monito di Baricco: “Ogni volta che ci facciamo bastare certe parole d’ordine di brutale semplicità, noi bruciamo anni di crescita collettiva spesi a non farci fottere dall’apparente semplicità delle cose: non noi élite, sto parlando di tutti quanti”. Paradossalmente, questa tendenza scoraggia il politico che voglia davvero parlare al ‘popolo’, nel senso di articolare una visione coerente e critica del reale. Perché parlare al popolo significa mettersi nella spiacevole posizione di chi tutto sommato non ne è parte, e anzi pretende di esserne avanguardia: ma così si rischia di passare per il nemico. Di essere élite, appunto. A vincere a mani basse, invece, è la retorica dell’identità immediata. Quella di chi sa proporsi come omologo del suo elettore. Prendete Salvini. Posta immagini sui social col panino al salame o la fetta di pane con su la Nutella. Il messaggio è chiaro, è lo stesso di Mike Bongiorno secondo Umberto Eco: voi siete Dio, restate immoti. Tutti fanno a gara per somigliare all’elettore, non per guidarlo. Tanto che anche i candidati di sinistra ci parlano come se fossimo dei seienni (Prendo un esempio da una bacheca nostrana: “A me piace moltissimo il Natale. Sia perché sono credente e il Natale celebra la venuta di Gesù e la salvezza; sia per l’atmosfera, le lucine, le sere di dicembre, il trovarsi tutti assieme o il ritrovarsi”. Se faccio il bravo posso avere il panettone?).
Resta da capire se questa corsa al ribasso possa essere fermata. Se quel meccanismo di semplificazione dei messaggi possa rivelarsi funzionale a una comunicazione politica meno belluina. Dopotutto, agli albori di Twitter e Facebook, pareva che quelle stesse piattaforme potessero servire per affermare un’agenda di speranza e di reale cambiamento: da Barack Obama alle primavere arabe, furono i movimenti progressisti ad utilizzarle per smarcare gli avversari. Non è dunque impensabile una ‘voce’ che resti immediata e fresca senza prendere le scorciatoie del qualunquismo e del rancore. Ma ci sarà ancora molto da sperimentare.