Non sempre chi sta al vertice è un raccomandato o un disonesto. A volte, anzi, è migliore di noi
La scorsa volta si parlava di élite e popolo. Della loro contrapposizione non proprio recente, ma sempre più virulenta. Resta da capire un po’ meglio cosa si possa intendere per élite, onde evitare facili equivoci.
Nella narrazione di grillini, salviniani, trumpiani, gilet gialli e affini, élite è sinonimo di casta: una consorteria di potere chiusa, che si autoriproduce ed esclude tutti gli altri da una rete di favoritismi, privilegi e diritti di successione. In questo senso, il gioco di prestigio dei leader populisti consiste nell’attribuire a tale cricca tutti i caratteri del nemico – liberalismo, progressismo, internazionalismo – in modo da fingere di non esserne parte, anche quando stanno al governo di un cantone o di una nazione. Così, finché gli elettori abboccano, diventa facile attribuire ad altri le responsabilità per tutti i mali del mondo, dalla fame al morbillo.
Così capita ad esempio che Laura Castelli, sottosegretaria cinquestelle all’Economia, chiami l’opposizione Pd a “riferire in aula” per la recessione appena inaugurata dal suo governo (tramite l’azzoppamento degli incentivi all’investimento privato, il differimento di quello pubblico, la previsione di nuove tasse per finanziare le promesse elettorali). In Ticino segue una logica simile la demonizzazione di un’inesistente alleanza Plr-Ppd-Ps da parte della Lega, che conta due consiglieri di Stato su cinque, ma finge di essere altrove quando il resto del governo prende certe decisioni.
Certo, è impossibile negare che una parte delle élite – politiche e non solo – sia arrivata dov’è secondo logiche che poco o nulla hanno a che fare col merito, e che agisca anzitutto per preservare i suoi privilegi. Si tratta di dinamiche da stigmatizzare e correggere, nei limiti del possibile; anche perché germogliano da quelle differenze di classe che l’Europa ha creduto superate troppo frettolosamente (ritrovandosi con una classe media asfittica e una borghesia istruita che riproduce se stessa, fra le altre cose).
Ma il mantra populista si spinge ben oltre: fomenta il sospetto nei confronti di chiunque faccia parte di un’élite di qualsiasi tipo, anche se ci è arrivato con l’impegno e con l’ingegno; getta su chiunque l’ombra di una presunta disonestà; mette in discussione a priori qualsiasi stratificazione di saperi e competenze; infine, finisce per mettere in dubbio il fatto stesso che debba esistere, un’élite.
È quello che succede quando ci si abbandona alla retorica contro i “professoroni”, i “sedicenti esperti”, le “teste d’uovo”. Quando si sdogana un dibattito pubblico nel quale, in nome dell’“uno vale uno”, si dà la stessa dignità a qualsiasi opinione: quella delle ‘mamme informate’ che contestano gli immunologi sui vaccini, quella del perito aziendale che zittisce l’economista della London School of Economics con un “ma lei sta scherzando!” o un “questo lo dice lei”.
Ma un’élite deve pure esistere in ogni società: servono e serviranno sempre ministri, alti funzionari, primari, manager, docenti che occupino posti di responsabilità. Non potendoli eliminare, il populismo promette di sostituirli con presunti emissari del ‘popolo’ (qualunque cosa esso sia). La ragione è tanto semplice quanto triste: negando che per certi ruoli servano abilità straordinarie si blandisce l’elettore nelle sue debolezze, lo si rassicura sul fatto che non esistono ragioni oggettive che lo vedono ai piedi di certe scale, invece che lassù in cima.
Come ha notato Luca Sofri, si incassano voti titillando “la repulsione che presso alcuni suscita l’idea che ci siano persone di qualità superiori rispetto ad altre, repulsione dovuta a un eccesso di ‘correttezza morale’, a un malinteso senso di uguaglianza. Dove l’uguaglianza è soppiantata dall’egualitarismo: invece di chiedere pari diritti e pari opportunità che ogni singolo possa sfruttare per ottenere dei risultati, queste persone chiedono che siano sempre pari anche i risultati”.
L’attacco all’élite diventa allora anche un attacco alla democrazia rappresentativa, che si presume di poter sostituire con enormi plebisciti nazionalpopolari: che gli ‘eletti’, i rappresentanti, si limitino ad eseguire quanto ordina la vox populi. Nessuna società può funzionare in questo modo, naturalmente, ché diventerebbe una dittatura dell’incompetenza. Ma questo ai demagoghi non interessa: al momento del disastro, troveranno certamente qualcun altro a cui dare la colpa. Tanto, la risposta a chi ne contesta i trucchi è facile: sono un’élite anche loro.