L’autobiografia politica di Pietro Martinelli – il libro di memorie che segnalo – descrive il percorso politico e la ricostruzione della memoria personale che Pietro Martinelli ha vissuto, in una autobiografia che vuol essere una sintesi del “riformismo rivoluzionario” del socialismo ticinese nel secondo Novecento. Pietro Martinelli più di altri politici ha saputo interpretare e adattare alle esigenze della politica tradizionale la richiesta di cambiamento che scaturiva dai movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta, portando però alle estreme conseguenze la politica consociativa tra i partiti di governo.
La Repubblica dell’iperbole di fine Ottocento sembrava essere risorta dalle ceneri, nel dibattito politico del secondo dopoguerra, quando si trattò di criticare l’Intesa di sinistra tra il partito liberale-radicale e quello socialista. L’obiettivo della critica “a sinistra” era stato il modo consociativo di governare, che presupponeva sempre un accordo e un compromesso preventivo fra i partiti, nelle decisioni del governo. La mia domanda è questa: come può Pietro Martinelli celebrare (a ragione, dal suo punto di vista) nelle sue memorie quel percorso personale in politica, senza dire nulla sullo stato di fatto in cui si è ridotta oggi la politica, non solo a sinistra nella società ticinese? Se il movimento d’idee cui egli faceva riferimento (nel percorso dal Psa al Psu al Ps) aveva per obiettivo un mutamento sostanziale nel modo di gestire l’interesse pubblico, perché l’esperienza sociale di quegli anni non ha generato quel mutamento, lasciando al contrario crescere una ideologia di destra, in una sorta di degenerazione del sistema consociativo?