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Banchi di nebbia

(Ti-Press)
23 novembre 2024
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“Chi porta un problema al Dipartimento finisce a volte per diventare il problema”. Lo dice un’insegnante, volutamente rimasta anonima, in un servizio di ‘Falò’ (Rsi) dello scorso settembre dedicato al disagio dei docenti nella scuola ticinese. Una frase ricordata testualmente di recente durante l’emissione radiofonica di Rete Uno ‘Millevoci’ da Roberto Caruso, il docente della Spai di Mendrisio sospeso e poi licenziato per decisione del Consiglio di Stato. Quella di Caruso è una vicenda di cui si è molto parlato anche perché a una prima sospensione, caduta in giugno, a pochi giorni dalla fine dell’anno scolastico, il docente ha fatto ricorso, ottenendo che il Tram, il Tribunale amministrativo, smentisse la decisione governativa e che il suo caso venisse di conseguenza riconsiderato. A una rivalutazione dei fatti, il Decs ha ribadito la propria decisione e Caruso ha nuovamente fatto ricorso aggiungendovi pure una querela. Dunque pende sulla faccenda una decisione definitiva che dovrà passare al vaglio della magistratura: fino ad allora, come prassi impone, il Dipartimento non può esprimersi in merito. Lo può invece fare e lo fa, legittimamente, Roberto Caruso, che in questi mesi ha già ampiamente raccontato della sua vicenda alla stampa, sostenuto anche dagli attestati di stima e solidarietà di un nutrito gruppo di suoi allievi ed ex allievi che in merito hanno persino indetto una conferenza stampa. Insomma, un “caso Caruso” molto chiacchierato e discusso, a maggior ragione in assenza di una presa di posizione dell’autorità scolastica che renda comprensibile all’opinione pubblica una decisione così drastica e definitiva, presa in assenza di elementi di carattere penale passibili di essere considerati come gravi comportamenti del docente. Vi è stato, è vero, anche un incontro fra i vertici del Decs e una delegazione degli studenti, ma a detta di questi ultimi si è trattato soltanto di un’occasione (mancata) in cui sono stati “sentiti ma non ascoltati”.

Per l’opinione pubblica interessata alla questione, un brutto esempio di immotivata chiusura nei confronti di qualsiasi richiesta d’ascolto e di dialogo, un ennesimo segnale di distanza fra istituzione e cittadini. A rompere il silenzio governativo solo una breve presa di posizione della consigliera di Stato, piuttosto adirata verso il docente e il sindacato Ocst che con le loro azioni e dichiarazioni getterebbero “fango sulle istituzioni”: insomma, una sommaria condanna e, verrebbe da aggiungere, una nuova occasione persa di ripensare modalità comunicative fra vertici della politica e cittadinanza, che in verità dovrebbero imporsi come fondamento di un dialogo aperto e trasparente. È vero, ad azioni legali in corso esistono precise direttive che impongono alle parti un determinato comportamento e, come detto, prescrivono all’autorità di non esprimersi pubblicamente fino alla chiusura del caso.

Resta però il fatto che i “casi” si susseguono, e una volta un consigliere di Stato alle prese con un etilometro o due, tace per poi far parlare l’avvocato difensore che inonda i media di dichiarazioni che rinviano alla panna montata; un’altra volta un altro consigliere di Stato fa sapere (per vie traverse) che non parla più con un giornale (questo giornale) per ragioni per nulla chiarite. Poi arriva la vicenda Caruso, e di nuovo nessuno riesce a capire come stiano le cose se non prendendo atto della versione del docente licenziato, il quale anche a ‘Millevoci’ è tornato a ripetere che il “capo d’accusa” che ha portato il Decs e il governo a sancire il suo licenziamento è “mancanza di tatto, di cortesia e insubordinazione”. Ma è possibile? Dobbiamo dunque pensare che nell’organizzazione della scuola e della formazione sia bandita ogni forma di minimo dissenso? Chi ha da dire qualcosa è un maleducato? Parrebbe di sì, ed è preoccupante, perché una tale sequenza di casi “inevasi” e non spiegati non fa che alimentare un senso di sfiducia nelle istituzioni che del resto ha trovato in ‘Millevoci’ (con le molte manifestazioni di sostegno al docente via whatsapp) una sua bella cassa di risonanza. Con un conduttore, Sergio Savoia, che dando subito del tu a Caruso empatizza col protagonista e sintetizza la storia senza che vi sia una sola voce di un contraltare istituzionale (invitato semmai a palesarsi, qualora lo volesse); un conduttore, Savoia, che trova addirittura il modo di dichiararsi solidale poiché anch’egli, a suo tempo, è stato oggetto di un licenziamento, senza dire e ricordare che a licenziarlo è stata proprio l’azienda che l’ha poi risarcito, riassunto, messo al microfono e promosso a presidente dei quadri: la Rsi, il servizio pubblico, insomma.

Così, nella nebbia sempre più fitta della comunicazione fra poteri dello Stato, fra organismi istituzionali, ancora più drammatica appare la triste mancanza di chiarezza che il potere politico cantonale dimostra nei confronti dei diritti di informazione dovuti al cittadino. Se poi, per svolgere il compito, il servizio pubblico si affida a chi si affretta a ricordare al pubblico, in modo tanto parziale quanto ambiguo, il proprio caso personale, allora i banchi di nebbia si infittiscono, offuscano ogni rapporto fra banchi scolastici e banchi parlamentari e alla fine non c’è davvero che da temere il peggio, anche per una giusta soluzione del caso di Roberto Caruso.