“Una querelle da pianerottolo”: un mio vecchio amico ha ben fotografato la farsesca situazione che sta mettendo a terra la magistratura, e soprattutto sta minando il suo prestigio e la sua credibilità. Alla base, la questione poteva essere risolta con una retreat (cioè una di quelle riunioni che vanno tanto di moda, nell’universo un po’ fasullo del team building) in qualche amena località, sotto la guida di un coach esperto in composizione dei conflitti. Che avrebbe potuto limare qualche ego troppo sviluppato e indurre qualcuno a riconoscere errori, mettendo da parte primadonnismi e minuetti da dignità offesa; con qualche lezioncina di comportamento pubblico, sui social e altrove. Invece, niente: come in millemila altri casi, si è preferito far marcire le situazioni e i conflitti in un bagno di inerzia, confidando a torto che tutto si sarebbe risolto da solo. Per poi prendere, nell’isteria dell’urgenza, misure surreali, come nominare dapprima – con periglioso esercizio ossimorico – una pur eccellente penalista in piena attività come giudice super partes, e poi mendicando aiuto fuori cantone. E, sullo sfondo, una guerra che – a differenza di altre – ha trovato eco puntuale sulla stampa, almeno su quella dove ancora si fa del giornalismo. Non è questa la sede, ma bisogna forse dirlo: la gestione delle turbolenze in magistratura penale è uno specchio, e un esempio tra i tanti, di come il Consiglio di Stato non sia ben attrezzato per affrontare le emergenze con il rigore e la tempestività che esse richiedono.
Il tema fondamentale è però quello del rispetto della carica, della coscienza che gli eletti devono avere in ogni momento del fatto che essi incorporano il prestigio dell’istituzione, del ruolo che chi li ha eletti ha loro conferito. Vale per le miserie automobilistiche e giudiziarie dei nostri ministri, per il comportamento di taluni eletti a Berna; per tacere di sindaci e di granconsiglieri. Dobbiamo ricordare, perché qui mi pare che lo si scordi nello strepito da lavatoio in corso, che chi ha eletto costoro li ha ritenuti degni di una carica prestigiosa, di incarnare un ruolo e un titolo preziosi. In nessun momento essi devono dimenticare che sono pagati anche da chi non li ha votati, e che sono stati messi lì per svolgere un compito istituzionale, nel rispetto e con la dignità pubblica e privata che la carica richiede.
Naturalmente ci si stupirà, in qualche quieta o turbolenta stanza, del fatto che il pubblico fatichi ormai a riconoscere alle “autorità” il prestigio, la credibilità e la dignità morale che la loro posizione legittimamente dovrebbe implicare. Con quale titolo ci si potrà permettere di dare qualche giusta lezione di etica e di comportamento da un alto scranno, se questo scranno per colpa di chi lo occupa ha perso gran parte del suo prestigio? Il mondo attuale sta distruggendo piano piano il credito che davano la formazione, la cultura e lo studio, e questo a profitto dell’ostentata manifestazione dell’ignoranza; di qui il sospetto con il quale si ritiene giusto guardare alle cosiddette élite. Certo che anche gli eventi di cui sopra stanno dando un colpo esiziale a un principio di autorità correttamente declinato; e proprio da coloro che dovrebbero costituire, insieme ad altri, un argine di civiltà contro le derive attuali.