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Amazon, Temu e compagnia bella

(Keystone)

Negli ultimi quarant’anni l’inflazione (beni di consumo) è stata relativamente contenuta in quasi tutti i Paesi industrializzati. Per molti commentatori economici la spiegazione risiede nelle accorte politiche monetarie delle banche centrali, in particolare in quelle di Alan Greenspan, che è stato presidente della Fed (la banca centrale Usa) dal 1987 al 2006. In realtà Greenspan non ha fatto nulla di geniale. La spiegazione è molto più semplice e si chiama globalizzazione, iniziata con la svolta politica avvenuta tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, prima negli Usa e poi in tutti i Paesi occidentali. Tra i vari obiettivi di questa svolta (che verrà poi identificata come svolta neoliberista) c’era la volontà di contenere i salari e sconfiggere i sindacati. Tuttavia emerse subito un problema: il potere d’acquisto era insufficiente per garantire stabilità al sistema. Quindi fu necessario trovare una soluzione alternativa: inondare il mercato di prodotti a basso costo, fabbricati in Paesi in cui il costo del lavoro era irrisorio, come in Cina. Ma questa soluzione aveva anche delle controindicazioni: il fallimento di molte industrie medio-piccole e la chiusura di commerci familiari. A emergere furono invece i grandi centri commerciali tipo Walmart e poi piattaforme online come Amazon e più di recente Temu e Shein, gestite direttamente dalla Cina.

Naturalmente qualsiasi variazione dei prezzi viene percepita come eccessiva, proprio perché il potere d’acquisto dei lavoratori è insufficiente. Tra il 1979 e il 2022 la produttività del lavoro negli Usa è aumentata del 64,7% mentre i salari sono cresciuti del 14,8% (ovviamente la differenza è andata al capitale).

Anche nel nostro Paese abbiamo assistito a questo processo, con la concentrazione della vendita dei beni di consumo in due grandi catene di distribuzione e un progressivo smantellamento dei piccoli commerci, compresi anche quelli legati all’abbigliamento (fast fashion) che stanno soccombendo di fronte a Zalando, Shein e altri che hanno un’offerta maggiore e prezzi competitivi. Certo, non c’è il servizio diretto al cliente, ma l’erosione del potere d’acquisto fa passare questo elemento in secondo piano, così come le ripercussioni sociali e ambientali.

Interessante anche la recente strategia di Migros (ma anche di Coop). Alla fine del secolo scorso aveva intrapreso un processo di integrazione orizzontale allo scopo di allargare la sua presenza sul mercato (elettronica, fai da te, sport). Ora, invece, proprio sulla spinta della concorrenza online sta ritornando sui suoi passi e non è da escludere un processo di integrazione verticale come quello che sta facendo, ad esempio, Lidl, che per ridurre ulteriormente i prezzi sta costruendo mega impianti di produzione altamente automatizzati (come quello che produce un milione di gelati tipo magnum al giorno e che è solo l’ultimo esempio della strategia di integrazione verticale del gruppo).

Il futuro di questo modello però non è scontato. Per anni le grandi aziende (come Amazon) hanno operato dall’Occidente prendendo i prodotti dall’Oriente. Da alcuni anni stanno emergendo colossi cinesi come appunto Shein e Temu, che stanno conquistando il mercato con prezzi concorrenziali e con un servizio veloce ed efficiente. Si può disquisire sulla qualità dei prodotti, ma è verosimile che provengano più o meno tutti dalle stesse imprese. A fare le spese di questo modello sono naturalmente i lavoratori da entrambi le parti. Delle condizioni di lavoro in Cina siamo a conoscenza: Foxconn, oltre alle condizioni pessime dei lavoratori tradizionali, ha introdotto anche l’obbligo per gli studenti di coprire i picchi di produzione dettati da ditte come Apple o Amazon. Pur essendo le condizioni di lavoro state denunciate molte volte, le aziende occidentali hanno sempre fatto orecchie da mercante e addirittura Amazon si rifornisce da imprese che sfruttano gli uiguri costretti ai lavori forzati. Lo stesso fanno evidentemente anche le aziende cinesi, magari espandendo la loro rete di produzione in Paesi dove il costo del lavoro è ancora più basso rispetto alla Cina.

L’amministrazione Usa – e su questo punto i due partiti sembrano trovare un punto in comune – vorrebbe iniziare una guerra commerciale a tutto campo con la Cina. Non solo provando a escludere dal mercato Shein e Temu, ma anche TikTok, Huawei, Byd e altri marchi. Ma le conseguenze? Permettendo solo alle imprese occidentali di “fare il gioco sporco” o escludendo veramente la catena di produzione cinese dal mercato occidentale? (L’Europa, come sempre, seguirà gli Usa). In ogni caso i prezzi di questi beni saranno destinati ad aumentare, ma gli occidentali faranno sempre più fatica ad acquistarli. Il che per certi aspetti sarebbe un bene. La fast fashion, in particolare, è assurda da tutti i punti di vista.

Ma allora come uscirne? La soluzione è semplice: bisogna aumentare gli stipendi dei lavoratori e permettere la loro sindacalizzazione. Garantendo redditi in linea con gli aumenti della produttività, si darebbero ai lavoratori le risorse per acquistare su un mercato più “locale”, ridurre gli sprechi e assicurare ulteriori posti di lavoro alle nostre economie.

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