Studiose e studiosi vedono in crescita una certa coscienza del “dove sono?”, come dice Bruno Latour, che direttamente lega la nostra esistenza presente a quella futura. Si va assemblando da più parti la visione d’assieme, che la presenza dell’uomo e la sua azione sulla terra pongono un problema di riconversione radicale del modo di gestire gli scambi materiali col globo. Nonostante la vita facilitata e potenziata della civiltà della tecnica, inizierei col ricordare quello che già i greci antichi dai quali discendiamo sapevano, cioè che “la tecnica è di gran lunga più debole della necessità”. Poi riporto una frase di Emanuele Severino: “La tecnica propone – là dove diviene consapevole delle proprie possibilità – un’umanità che non riconosce Dio, ma lo costruisce con le sue mani e, anzi, si costruisce come Dio. Ma è anche fuor di dubbio che la tecnica sia riuscita a dominare il mondo rinunciando ad esser scienza, scienza in senso forte, e cioè verità assoluta, episteme, filosofia”. Episteme è il sapere che non si può smentire, da cui la cosa più conosciuta e impossibile da smentire è la presenza del cosmo, o universo, il quale con le sue leggi determina l’esistenza di noi esseri effimeri e boriosi.
Chi ha autostima del proprio spirito razionale può approdare oggi alla conoscenza scientifica sempre più dettagliata dell’impronta ecologica che l’uomo produce. In questa letteratura gli aspetti della realtà sono allarmanti, ma convincenti. Nondimeno estremamente attuale può risultare stimolante la coscienza intuitiva che l’individuo semplice si formi delle relazioni che intratteniamo con l’ambiente in senso lato. Nel filosofo ticinese Raffaele Scolari si legge della dissimmetria dello spirito tra interiorità ed esteriorità, da cui lo stato delle cose che provochiamo tendendo all’azione grande e sublime, è posto da ciò che dentro di noi sentiamo come spinta ineffabile ma, incommensurabilmente potente. In altre parole, la opere tendono sempre al grande, al sublime fino al mastodontico. Si ha l’effetto di “territori nichilisti” in cui le costruzioni recano l’interfaccia delle distruzioni (Filosofia del mastodontico, Scolari, Mimesis 2010).
Siamo di fronte al sempre più grande, al sublime. Un tempo era la natura, ora è il prodotto dell’uomo nel contesto della tecnica. L’immediatezza della percezione del sublime con le tecnologie connesse fa in modo che il passaggio della percezione attraverso l’intelletto sia ridotto fino a quasi nulla, cosicché la riflessione si fa “notare” per la sua assenza. Il sublime fino a ieri percepito al cospetto del paesaggio e dei fenomeni naturali è possibile solo in quanto “disturbato” dalla coscienza che già l’uomo insinua nel reale con la sua azione. È già il passaggio a un “tempo del destino” in cui l’azione diventa planetaria, come planetaria è la retroazione della natura: “A manifestarsi con la massima virulenza è ora la ‘nuda forza’ della terra, delle sue retroazioni all’azione tecnoscientifica dell’uomo”.
Dunque si trasmigra dal sublime, provocato nelle emozioni umane dal mondo fuori di noi, al sublime del fare tecnico. L’impatto con l’ordine delle leggi della biosfera è problematico. Con riferimento alle critiche più radicali rivolte alla tecnica, la domanda testarda si rilancia così: aumentando la facilità e la potenza dell’investimento umano sulla terra, qual è il margine di sopravvivenza del meccanismo autorigenerativo (influssi della tecnonatura, ossia dell’uso tecnico della natura, inclusi) della biosfera?