Nella zona industriale di Balerna, praticamente in mezzo ai binari, sorge il Centro federale d’asilo (Cfa) Pasture, ricavato in un vecchio stabile delle Ffs di proprietà della Confederazione. A fianco, gli operai stanno ultimando un nuovo stabile che, dalla prossima primavera, ospiterà 350 migranti. Quando arriviamo qui è quasi mezzogiorno di una giornata di fine novembre. Nostra intenzione è realizzare un reportage che dia conto della situazione attuale (un articolo in proposito è uscito su ‘Area’). Alcuni furgoni riportano al centro dei richiedenti l’asilo vestiti di arancione: sono quelli che svolgono lavori di pubblica utilità per le squadre esterne di alcuni comuni del Mendrisiotto. Proviamo ad avvicinarci, ma veniamo subito bloccati. Un agente della Securitas ci chiede i documenti e, una volta identificatici come giornalisti, ci reclama la tessera stampa. Gli occhi indiscreti qui non sono ammessi: i Cfa non sono aperti a nessun tipo di visita. “Ragioni di sicurezza per gli stessi richiedenti l’asilo” invoca la Segreteria di Stato della migrazione (Sem).
Il dubbio è che non si voglia mostrare una situazione indecorosa, come quella che ci è stata raccontata da alcune persone che in questo centro sono entrate e che, per ovvie ragioni, non possiamo citare. La situazione che vivono gli ospiti dei Cfa, costretti a vivere ammassati all’interno della struttura tra le 18 e le 9, è sicuramente un tema importante, che va affrontato con urgenza: la questione non può essere limitata ai soli aspetti securitari tralasciando tutto il resto, l’integrazione, la partecipazione, il rispetto della dignità, il sostegno psico-sociale. Al di là di questo, però, vi è un altro aspetto che in questo luogo si materializza in modo impertinente. Una sorta di immagine simbolo di un’ipocrisia tutta elvetica che prende forma proprio qui, tra le industrie e i binari del basso Mendrisiotto. Da una parte della strada, quindi, abbiamo questo Cfa ultrasecurizzato dove vivono decine di persone di ogni origine e sventura. Dall’altra parta, ecco sorgere gli stabilimenti della Valcambi, la più grande raffineria d’oro del mondo, un tempo di proprietà di Credit Suisse e oggi nelle mani del gruppo indiano Rajesh. Un fiore all’occhiello dell’industria aurifera svizzera che proprio nel Mendrisiotto ha costruito il suo triangolo d’oro con, oltre alla Valcambi, la presenza di Argor-Heraeus a Mendrisio e Pamp a Castel San Pietro.
La vicinanza geografica tra la Valcambi e Pasture apre a tutta una serie di interrogativi, evidentemente tralasciati nel recente, scadente, dibattito sulla migrazione. Negli ultimi anni, proprio la Valcambi è finita al centro di alcuni scandali legati all’origine controversa del suo metallo giallo. Oro africano, arrivato qui tramite giri acrobatici volti a disperdere le tracce. Si è parlato ad esempio del Sudan, Paese dove proprio a causa dell’oro è scoppiata una guerra. E Paese di provenienza di alcuni ospiti del Cfa adiacente. Da una parte, insomma, l’industria che crea ricchezza per la Svizzera. Dall’altra, persone in fuga da Paesi da cui le ricchezze sono depredate e sui quali, nella recente campagna elettorale vinta dalla destra, si sono riversati una marea di rigurgiti xenofobi.
Parte dell’oro sospetto in arrivo a Balerna è stato importato da Dubai dove Valcambi ha intrattenuto una relazione d’affari con la controversa società Kaloti. Quest’ultima è stata per anni il principale cliente della Banca Centrale del Sudan la quale acquistava l’oro dalle parti in guerra nel martoriato Darfur, in particolare dal generale Hemeti, storico comandante delle sanguinarie milizie paramilitari delle Rapid Support Forces (Rsf). Kaloti è stata screditata in seguito alla pubblicazione, nel 2014, di un rapporto di revisione contabile che dimostrava che la società non aveva svolto nessuna due diligence sull’oro sudanese. Malgrado ciò, a differenza di altre raffinerie elvetiche da cui Valcambi si è da poco dissociata, l’azienda di Balerna avrebbe continuato a fare affari con questa controversa società: secondo uno studio dell’Ong Swissaid, tra il 2018 e il 2019, Kaloti e una società a lei strettamente collegata hanno esportato 83 tonnellate di oro a Balerna. La raffineria ha poi dichiarato di non avere più nulla a che fare con Kaloti dal novembre 2019. Affermazione, questa, che è stata di recente smentita da un’inchiesta giornalistica della Rts.
Nel 2023, in Sudan è scoppiata una nuova guerra, risultato di una lotta tra le due fazioni militari emerse dopo la destituzione, nel 2019, di Omar Bashir, al potere da trent’anni: da un lato il generale Abdel Fattah Burhan, presidente dall’ottobre 2021; dall’altro il temuto generale Hemeti. Uno dei principali fattori di conflitto è il controllo dell’economia sudanese, di cui l’oro è oggi un settore chiave. Una guerra da cui è scappato Mohamed, originario della capitale Karthum, uno dei tanti giovani migranti ospiti in Ticino che abbiamo incontrato in questi giorni. Le ragioni del suo arrivo a Chiasso, in fondo, non vanno poi cercate così lontano.
Questo articolo è stato pubblicato grazie alla collaborazione con il blog ‘Naufraghi.ch’