L’ospite

Liberali infelici e confusi

(Ti-Press)

Chiusi i giochi, i partiti si rimettono davanti allo specchio per trarre i primi bilanci. Le elezioni federali hanno confermato la divaricazione classica tra Udc e Ps, un’imprevista caduta dei Verdi e una sorprendente ripresa del Centro, che si riteneva in affanno dopo che nella Svizzera tedesca e francese si era deciso di rinunciare nel nome al “fattore C”, ovvero “cristiano” (in Ticino la “c” stava invece per “conservatore” e questo fino al 1970). Perplessità erano sorte anche intorno alla nuova autodefinizione, frutto di una doppia negazione: né di sinistra né di destra: centro, “die Mitte”. Alla prova dell’urna la base ha approvato la scelta (segno anche di un processo di laicizzazione del partito non più reversibile).

Se il Centro può legittimamente rimirarsi con soddisfazione, non altrettanto può fare un altro partito centrista, ovvero il Partito liberale-radicale. Il quale nella sua corsa si è visto riprendere dal suo rivale storico, gli eredi degli sconfitti del Sonderbund. Ormai nel Consiglio nazionale le due forze si equivalgono (29 deputati il Centro, 28 il Plr), mentre netto è il vantaggio dei democristiani alla Camera alta (15 contro 11). Cos’è successo ai liberali-radicali, come spiegare questa perdita di velocità? Solo un temporaneo calo di zuccheri determinato dalle disavventure bancarie degli ultimi anni, oppure un mancamento provocato da disfunzioni colpevolmente trascurate? Probabilmente alla flessione hanno contribuito entrambi i fattori, sia il discusso affaire Ubs-Credit Suisse, sia una crescente sfiducia nei confronti di una formazione che per decenni, se non per secoli, ha incarnato i poteri forti di questo Paese, attraverso associazioni economiche, centrali finanziarie, reti corporative, gruppi di pressione in parlamento.

Questa identificazione con il potere ha la sua genesi nei processi che hanno condotto al varo della Costituzione federale del 1848, quindi alla formazione della Svizzera moderna. Di quest’operazione il movimento liberal-radicale (“Freisinn”) è stato il principale artefice, con alla testa uomini come Ochsenbein ed Escher, il fondatore del Kreditanstalt. È quindi corretto riconoscere alla corrente liberale dell’epoca il ruolo di anima della nazione (“Seele der Nation”) sorretto da un’ideologia repubblicana, anche se non ancora pienamente democratica. Alcuni storici sostengono anzi che il Freisinn fu egemonico per tutto l’Ottocento, concedendo ben poco ai concorrenti fino al 1874. Solo dopo la prima guerra mondiale, con l’introduzione del sistema proporzionale per l’elezione del Consiglio nazionale, i liberali-radicali persero il loro primato in termini di seggi.

A questo punto occorre però distinguere e mai dimenticare che ogni grande partito nazionale deve fare i conti con le sezioni cantonali, le quali sono portatrici di sensibilità e tradizioni diverse, non necessariamente in sintonia con quelle espresse dalla maggioranza. Il caso del Ticino è emblematico, non solo perché il Plrt si considera una formazione «interclassista», ma anche perché sa che un appiattimento sulle posizioni dominanti, care agli “gnomi di Zurigo”, non gioverebbe agli interessi della minoranza ticinese.

Di questa missione è sempre stata consapevole soprattutto l’ala radicale del partito, sull’onda di un prestigio già acquisito alla fine dell’Ottocento attraverso l’opera di Emilio Bossi, Romeo Manzoni, Brenno Bertoni, tutti uomini che avevano un occhio di riguardo per la “questione sociale” e per le rivendicazioni che il cantone inoltrava a Berna. Ed è anche per questo motivo che gli slogan coniati o adottati sulle rive della Limmat (“Più Libertà, meno Stato”) non hanno fatto molta strada nell’elettorato liberale, che certamente apprezza i discorsi sulla libera iniziativa e sulle virtù salvifiche del mercato, ma ancora di più l’esistenza di un apparato amministrativo robusto, dispensatore di impieghi pubblici sicuri. “Più Stato o meno Stato?”, si chiedeva nel 1980 Pino Bernasconi introducendo un volume di Massimo Pini (Dopo la generazione del potere). E rispondeva: “Più Stato, evidentemente, per le opere sociali”.

L’offensiva neoliberale (o semplicemente liberista) degli ultimi decenni ha quasi cancellato il radicalismo di matrice ottocentesca. La prevalenza del liberismo economico-finanziario sul liberalismo sociale ha condotto il partito nei territori controllati dall’Udc. Nel frattempo anche il Centro, come si è visto con l’elezione di Regazzi (che ha recuperato il seggio perduto nel 2019), è uscito dalla sua condizione di socio di minoranza dell’area moderata per affiancarsi all’ex nemico storico.

In Ticino la striscia negativa del Plrt è iniziata nel 2011 con il dimezzamento della rappresentanza in governo, per poi proseguire nel 2013 (perdita del sindacato di Lugano) e infine con la sconfitta di Giovanni Merlini nella corsa agli Stati nel 2019. Il galeone liberale-radicale è stato prima preso d’assalto dai pirati della Lega. Ora invece, venuta meno la minaccia leghista, l’ex “partitone” deve guardarsi dal tiro incrociato proveniente dal fronte Udc-Centro. Le prossime elezioni comunali diranno se il gambero liberale continuerà a indietreggiare oppure no. Ma la battaglia finale con i nuovi rivali dell’Udc andrà in scena nel 2027, al rinnovo dei poteri cantonali, qualora uno dei due leader (Marco Chiesa oppure Piero Marchesi) decidesse di candidarsi per il Consiglio di Stato.