La prima pista sulla quale riflettere è senza dubbio l’adeguatezza della nostra legislazione sugli stranieri
Secondo i dati dell’Ufficio federale di statistica la Svizzera si appresta tra pochi anni a superare i 9 milioni di abitanti e a raggiungere i 10 milioni nel 2040. Il nostro cantone conosce invece piuttosto una stagnazione, anche se sulla lettura dei dati ci sono pareri non sempre convergenti. A partire da queste constatazioni dobbiamo porci la domanda: la crescita della popolazione, rispettivamente la sua stagnazione, è un fenomeno positivo o negativo? Cosa comporta? In che modo dovrebbe intervenire la politica?
In termini molto generali si può dire che un aumento della popolazione comporta la necessità di nuove infrastrutture pubbliche e private (alloggi, trasporti, scuole, ospedali, servizi ecc.), una cementificazione maggiore del territorio e una maggior pressione sull’ambiente, un aumento dei contribuenti fiscali, un certo aumento dei posti di lavoro (almeno per soddisfare una parte delle esigenze del surplus di popolazione), un certo riequilibrio del sistema delle assicurazioni sociali (più lavoratori attivi e quindi paganti). Al contrario, una stagnazione o una riduzione demografica hanno per conseguenza un invecchiamento statistico della popolazione, la necessità di nuove infrastrutture per la terza età, una certa tregua per quanto riguarda l’uso del territorio, un problema quanto alla reperibilità della manodopera per le aziende, un peggioramento del rapporto tra lavoratori attivi e beneficiari delle prestazioni delle grandi assicurazioni sociali.
E la politica? Detto che nessuno dei Paesi occidentali liberi e democratici che io conosco è mai riuscito ad aumentare in maniera significativa il tasso di natalità interno con dei provvedimenti di natura finanziaria o sociale, che in queste società tende sempre a ridursi con l’aumento del benessere generalizzato, piaccia o non piaccia l’unica via di regolazione della demografia rimane l’immigrazione dall’estero, che quindi può avere una connotazione positiva o negativa a dipendenza di come si voglia vedere il fenomeno dell’aumento o della stagnazione demografica.
Personalmente credo che l’aumento importante della popolazione sia problematico. Vale per noi, ma vale prima di tutto per il mondo intero, che in poco più di due secoli ha visto il numero degli uomini sulla Terra passare da un miliardo a otto miliardi, con prospettive di crescita futura piuttosto robuste. Anche di fronte a questi dati gli sforzi per incrementare il tasso di natalità nelle nazioni che lo hanno basso mi paiono una follia, a meno di entrare nella logica piuttosto razzista secondo la quale un neonato svizzero, appartenente ad una società invecchiata, sia preferibile ad uno africano, appartenente ad una società in netta espansione quantitativa. Detto questo, mi pare comunque parecchio illusorio definire per legge degli obiettivi inerenti alla popolazione, per cui credo sia preferibile scegliere alcune piste politiche per tentare di governare gli effetti del fenomeno.
La prima pista sulla quale riflettere è senza dubbio l’adeguatezza della nostra legislazione sugli stranieri (Legge federale del 16 dicembre 2005 sugli stranieri e la loro integrazione), che in termini generali ammette l’immigrazione solo qualora sia nell’interesse dell’economia (art. 3 cpv. 1) e se non si può dire di no per gli impegni di diritto internazionale pubblico presi o per motivi umanitari (art. 3 cpv. 2), naturalmente sempre che gli stranieri abbiano sufficienti mezzi propri (artt. 5 cpv. 1, 19, 28, 43, 44, 45). Una modifica dell’assetto di questa brutta legge a favore dell’integrazione delle famiglie, dei bambini e dei giovani immigrati permetterebbe di indirizzare la spinta verso l’aumento della popolazione a favore di un certo riequilibrio generazionale, che in definitiva è nell’interesse di tutti.
Un secondo elemento importante da approfondire mi pare essere lo sganciamento del sistema sociale dal modello assicurativo, secondo il quale i lavoratori attivi pagano i contributi mensilmente, beneficiando delle prestazioni quando diventano anziani, invalidi, disoccupati ecc. Da tempo il sistema non è più puro, nel senso che tra i paganti figurano anche altre fonti (per esempio una quota dell’Iva che noi tutti paghiamo quando facciamo acquisti), ma credo che sia venuto il momento di rivedere il modello nei suoi principi, introducendo alle entrate, prima che il sistema imploda, consistenti prelievi sulla ricchezza prodotta a fianco dei contributi dei lavoratori attivi.
Un terzo elemento di riflessione riguarda il territorio, che va protetto dall’inevitabile pressione legata all’eventuale aumento della popolazione. La necessità di usare bene il terreno edificabile, di proteggere le aree agricole, di estendere gli spazi di svago diventerà ancor più impellente, soprattutto in un Paese come il nostro, dove il territorio disponibile, bene non riproducibile, è già oggi piuttosto conteso.
Per quanto riguarda il Ticino, infine, sarebbe gran tempo di finalmente rovesciare la narrazione negativa sui frontalieri, i quali in larghissima parte occupano posti di lavoro che altrimenti rimarrebbero vuoti, non chiedono infrastrutture particolari (se non le strade o i trasporti per venire in Ticino e tornare a casa loro) e pagano imposte e contributi sociali. Il vero tema di attrito che tocca il frontalierato è legato alla debolissima regolamentazione dei salari, la quale permette alle imprese ticinesi di pagare troppo poco questi lavoratori, mettendoli così indebitamente in concorrenza con una parte dei lavoratori residenti. Un ambito specifico in cui si può e deve intervenire, con salari minimi più elevati, con contratti collettivi più stringenti ecc., ma è sempre difficile trovare maggioranze politiche solide che si concentrino su questo tema, senza mescolarlo indebitamente o volutamente con quello della concessione dei permessi.