I dibattiti

Elogio (triste) dell’astensione

L’elettore latita, insensibile a ogni appello e a ogni minaccia. A fronte accuratamente corrucciata, i politici ci servono la solita zuppetta moralistica

(Ti-Press)

Non servono blandizie di qualche candidato a caccia di preferenziali, né paterne lavate di capo da alti scranni; e neppure serviranno, nemmeno in questo mondo di isolamento globale e di capriccioso infantilismo, fasulle e ipocoristiche manfrine. L’elettore latita, insensibile a ogni appello e a ogni minaccia.

A fronte accuratamente corrucciata, i politici ci servono la solita zuppetta moralistica; “chi vota decide anche per chi non lo fa”, “votare è assumersi la responsabilità per il funzionamento della democrazia”, e via sciorinando ovvietà. Le solite frasi di circostanza, atti dovuti all’indomani del voto di fronte alla crescente ampiezza del fenomeno; un tema però prontamente evacuato il giorno dopo, tra un aperitivino ecumenico-trasversale (#tuttiamiconiabellinzona) e un bel gettone di presenza in aula o in commissione. La verità è che i politici sono in fondo ben poco interessati al tema, e in particolare all’evidente vulnus di legittimità che un’astensione come la nostra infligge alla politica, ai partiti e ai loro dirigenti e deputati, e alla gestione della cosa pubblica. In sostanza, essere eletti è da costoro ritenuto più che sufficiente, anzi l’unica cosa che conti, anche se l’elezione consegna potere a persone elette da una minoranza della minoranza.

Alla base della fuga dalle urne c’è un chiaro scollamento tra partiti (e loro rappresentanti) e società civile. Uno scollamento di cui i principali responsabili non sono gli elettori, ma appunto i partiti, incapaci di proporre un’idea di società e un progetto di qualche respiro, di qualificarsi per idee e proposte, di affrontare un discorso identitario che li qualifichi; e non solo di perpetuare la sfinente prassi del rincorrere i mutevoli umori di quelli che urlano di più, dell’“intercettare” il comune sentire della gente. Come sempre, il mantra è quello dell’“ascolto”, cioè farsi megafono di istanze che provengono in ordine sparso dall’elettorato; con tanti saluti per la capacità di organizzare temi e questioni in un progetto ideale e politico da proporre, cioè di “farsi ascoltare”. Certo, il rischio è quello di perderla, un’elezione, se l’elettorato non è d’accordo con il progetto; ma in fondo che c’è di male a perderla, un’elezione, se non rinunciare per un quadriennio (un’elezione è sempre in agguato, si sa) a una poltrona e a qualche franchetto guadagnato senza fatica?

Ho fieri dubbi che la nostra casta autoreferenziale, composta in parte non simbolica da arrivisti e da mediocri (e da una cinica schiera di, scusate l’ossimoro, “professionisti della politica di milizia”), sia in grado non solo di proporre qualcosa, ma neppure di capire quanto questo cambio di passo sia necessario, eticamente e appunto politicamente.

E allora? A noi elettori resta la scheda senza intestazione, attraverso la quale votiamo un po’ a capocchia voti e volti “amici”, che finiranno comunque impantanati nella disciplina del loro partito, e poi nei minuetti e nei giochi di ruolo della politica parlamentare, in cui si crea l’illusione di una dinamica, di una dialettica, per poi risolversi in una rappresentazione quasi teatrale di cui si faticano a comprendere le differenze, gli obiettivi, e soprattutto l’interesse che gli attori hanno effettivamente per i destini del territorio e di coloro che lo abitano. Oppure la scheda bianca, protesta cortese e per questo inascoltata; o infine, appunto, l’astensione che fa comodo interpretare come disimpegno un po’ stupido e autolesionistico, mentre si tratta spesso di una protesta radicale, di un appello alla politica e ai partiti affinché ritrovino ideali e proposte, e con essi la propria ragione d’essere. Quindi, sembra che abdicare al proprio ruolo di elettore sia diventato l’unico disincantato modo per esprimere l’opinione, chiedere risposte, reclamare cambiamento; un paradosso, certo, che rende un po’ triste questo forzato elogio per un gesto che non è però sempre un’assenza, per un’omissione che non è per forza una dimissione.