laR+ I dibattiti

A proposito di neutralità

25 gennaio 2023
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Roberto Antonini, nell’articolo di fondo de ‘laRegione’ del 23 gennaio 2023, pone questa domanda: "Siamo mai stati veramente neutrali durante la guerra fredda?" Siamo stati! Siamo stati! L’Autore forse era troppo giovane, forse non era ancora nato. Ma la Svizzera ha avuto il suo momento di gloria. Eravamo tra la fine degli anni Sessanta e tutto il decennio successivo. Ministro degli Esteri, allora, in Svizzera, non era il Consiglio federale in corpore, come oggi, ma un uomo singolo. E la Svizzera, allora, ha avuto due grandi uomini singoli, due grandi ministri degli Esteri. Pierre Graber e Pierre Aubert. Eravamo in piena guerra fredda. Da una parte il socialismo reale, con tutte le sue aberrazioni ereditate soprattutto da Stalin – ma forse strutturali allo stesso socialismo reale, il dibattito è ancora in corso – e dall’altra parte le democrazie liberali e il capitalismo. Allora la distinzione tra democrazie liberali e capitalismo sfrenato non era chiara; si pensava dipendesse da chi la formulava. All’Ovest si diceva "democrazie liberali", all’Est si diceva "imperialismo". In mezzo c’era la Cortina di ferro.

Pierre Graber e Pierre Aubert, da bravi svizzeri, avvertivano, come Alessandro Manzoni, che tra i torti e le ragioni non c’era il taglio netto della torta. Anche da questa parte della torta, dalla parte delle democrazie liberali, dalla parte del capitalismo, c’erano delle cose che non quadravano perfettamente. Le si avvertivano, queste cose, per chi era attento agli sviluppi internazionali come Graber e Aubert, soprattutto nel Terzo Mondo. In Africa, nel Vicino e Medio Oriente, in Sudamerica. Lì c’erano delle disparità intollerabili, per chi possedeva una qualche sensibilità.

Così i nostri due, in successione temporale, ovviamente, rivolsero la loro attenzione verso i Paesi in via di sviluppo, allora ignorati da tutti, salvo da chi voleva sfruttarli. E in particolare si rivolsero verso la nascente Associazione dei Paesi non-allineati, formata da quelle nazioni che osavano volersi affrancare dal protettorato soffocante delle due superpotenze. Tra i fondatori dei Non-Allineati c’erano l’egiziano Nasser (lo scatenatore della crisi di Suez), l’indiano Nehru, seguito dalla figlia Indira Gandhi, tutti i derelitti africani guidati dall’amico presidente-poeta del Senegal Leopold Sedar Senghor e, da ultimo ma non ultimo, il dittatore jugoslavo Tito. Ora, Tito non era un santo, e ne sapevano qualche cosa gli italiani vittime delle foibe, ma ebbe un ruolo cruciale negli equilibri politico-strategici di quegli anni. Perché, dissociatosi da Mosca, faceva da cuscinetto tra Est e Ovest. La Svizzera, e per essa i nostri eroi, fu la prima ad accorgersene.

La Svizzera fu la prima ad accorgersi del ruolo fondamentale che svolgevano i Paesi-cuscinetto. Non quei Paesi che stavano geograficamente tra le potenze egemoniche, come nell’Ottocento e nel primo Novecento, ma quei Paesi che stavano ideologicamente tra i due poli. Fu così che la Svizzera entrò a far parte dei Non-Allineati come osservatore, e fu così soprattutto che la Svizzera divenne osservatore, importantissimo osservatore terzo, nel confronto fra i due imperialismi (finalmente ho detto la parola).

Questo ruolo fu essenziale a metà degli anni Settanta, quando nacque, anche proprio grazie alla caparbia volontà della Svizzera, la Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce, ora Osce), che voleva gettare un ponte tra il di qua e il di là della Cortina di ferro, in omaggio alla Ostpolitik. Il senso di questo ponte è definito dalla denominazione "Spirito di Helsinki", dal nome della capitale in cui venne siglato il trattato Csce, nel 1975. Ora, per dirla tutta, lo "Spirito di Helsinki" non ebbe nessunissima risonanza in Occidente (non lo "cagò" nessuno, per usare un purismo linguistico). Ma al di là della Cortina di ferro, nel "paradiso" del socialismo reale, suscitò tra le popolazioni "comuniste" delle speranze enormi, delle aspettative gigantesche. Io oso affermare, a dispetto di tutti, che la caduta del Muro di Berlino fu provocata, prima ancora che dai sommovimenti di Solidarnosc e molto prima delle fantomatiche "guerre stellari" di Ronald Reagan, dallo "Spirito di Helsinki".

Tale fu la grandezza dei nostri due ministri degli Esteri al tempo della guerra fredda.

Fu applicazione del principio di neutralità? Non lo so. Ma tra gli eccessi degli opposti imperialismi bisognava pur frapporre qualcosa. Se non era la neutralità, doveva esserci comunque un ammortizzatore. Un "cuscinetto". Bisognava fare da "cuscinetto". Forse era questo che animava i nostri due grandi ministri degli Esteri Pierre Graber e Pierre Aubert.

È vero. Neutralità forse non è la parola giusta. Io riesco a mantenermi neutrale, ad esempio, nella controversia tra interisti e milanisti, anche tra maschilisti e femministe, ma non riesco a mantenere la stessa neutralità nel dibattito tra storicisti e negazionisti, sul grande tema dell’olocausto degli Ebrei. Però, se i due contendenti (gli storicisti e i negazionisti della Shoah) venissero alle mani, io mi metterei volentieri a far da cuscinetto, anche a costo della vita.

Io stimo moltissimo Roberto Antonini e leggo con piacere tutti i suoi articoli. Posso capire che egli voglia negare il ruolo pacificatore della neutralità, ma non posso credere che egli voglia negare il ruolo ammortizzatore di chi si è offerto in passato e di chi si offre oggi come Paese-cuscinetto.

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Enrico Diener articola con molta accuratezza il suo punto di vista, interpretando correttamente il mio interrogativo, che in effetti è retorico "La Svizzera è mai stata neutrale durante la guerra fredda?". In realtà non lo è mai stata in termini assoluti, basti ricordare lo scandalo delle 900mila schedature in cui si raccolsero informazioni soprattutto su persone sospettate di simpatie socialiste o comuniste e quello dell’organizzazione clandestina P26 attiva a partire dal 1979 (Pierre Aubert succedette a Pierre Graber nel 1978) in chiave anti-Patto di Varsavia. Che i due Consiglieri Federali ne fossero o non ne fossero al corrente è un’altra storia.

Roberto Antonini