Il ricordo di Cristiano Poli Cappelli, docente e musicista, di quel 19 luglio 1992 tristemente famoso per l’attentato in cui morì Paolo Borsellino
Avevo poco più di diciassette anni quando la bomba esplose. Ero vicino alla finestra, la mia chitarra in mano, con la mia ingenua adolescenza, un po’ di vestiti piegati sul letto per la partenza del giorno successivo. Era il 19 luglio del 1992. Il giorno dopo saremmo partiti per le vacanze estive. La mia spensieratezza fu improvvisamente scossa da un boato sconquassando i vetri con una violenza mai vista prima di allora. Si alzò una colonna di fumo in lontananza ma, evidentemente, quello che era successo era successo in città. Il telefono iniziò a squillare. Il nostro appartamento si trovava in una struttura riservata a funzionari di polizia e magistrati, struttura chiusa al passaggio pubblico, piantonata regolarmente da polizia e forze dell’ordine. Spesso e volentieri, tornando dal mio liceo, mi ritrovavo bloccato da un mitra o interrogato da qualche poliziotto armato. Abitavamo nell’appartamento al di sotto a quello di un noto procuratore antimafia. Mio padre era, all’epoca, vicequestore e capo di gabinetto della questura di Palermo. Dopo quell’esplosione non rividi mio padre per un paio di mesi. Non dormiva più a casa, nessuno di noi osava domandare cosa sarebbe successo. Quando un giorno tornò per pranzo, eravamo già tutti profondamente cambiati. Papà non era più la stessa persona ma una maschera di fatica, di stress, di tensioni, di cose non dette, di preoccupazioni celate, di segreti non svelati. E non sarebbe stato mai più lo stesso. Quei pochi mesi furono una piccola pasticca di vita dolorosamente vissuta che intossicò lui ed i suoi colleghi per sempre. Quella che era esplosa il 19 luglio era la bomba che aveva ucciso Paolo Borsellino.
Stavolta la mafia aveva colpito in città, fra di noi, nelle strade che frequentavamo, di fianco ai campi da calcetto in cui giocavamo. La mafia aveva danneggiato i nostri appartamenti, le nostre strade, le nostre vite. Per sempre. Ma la mafia ci aveva fatto capire che lo Stato siamo davvero noi, che gli uomini che si sacrificano per le Istituzioni, funzionari, poliziotti, carabinieri, magistrati, sono semplicemente eroi. Ci aveva portato in strada, a fare fiaccolate, a urlare, a far sentire la nostra voce di fronte di protesta contro questa mafia che sembrava essere ovunque e che noi eravamo convinti di fronteggiare.
La notizia dell’arresto di Matteo Messina Denaro non mi ha rallegrato. In un certo qual modo mi ha riportato indietro di trent’anni, senza ridarmi, tuttavia, quell’ardore giovanile in cui credevamo davvero di poter sconfiggere la mafia con le nostre fiaccole. Questo arresto è avvenuto troppo tardi. Mio padre non c’è più. Alcuni suoi colleghi, anche illustri, sono morti senza poter vedere, ormai in pensione, i frutti della loro missione, della loro abnegazione. La persona che è stata arrestata non è che un vecchio malato: non sono in grado di comprendere a pieno quale fosse il suo ruolo nella mafia di oggi e se la mafia stessa sia ancora lo stesso fenomeno di trenta o cinquant’anni fa.
Ma so che, se questo arresto ha un’utilità, è quella di tenere acceso il dibattito sulle mafie, sullo Stato, sullo Stato di diritto. Non dobbiamo mai smettere di pensare al ruolo di garanzia dello Stato per i cittadini, e non bisogna mai dimenticare che lo Stato di diritto si basa sull’impegno dei singoli cittadini, sulla loro visione solidale della comunità in cui vivono, sulla capacità di lottare per i diritti di ciascuno.