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‘Con l’arresto di Messina Denaro si è chiusa l’era stragista’

Il boss era in un ospedale di Palermo. Il pm del maxiprocesso Ayala a La Regione: ‘La società è cambiata. Cosa Nostra non è morta, ma se la passa male’

Matteo Messina Denaro dopo l’arresto (Keystone)

«Possiamo dichiarare finita l’era stragista, la più sanguinosa della storia della mafia. E aggiungere che Cosa Nostra non se la passa tanto bene». Così l’ex pubblico ministero del maxiprocesso di Palermo, Giuseppe Ayala, saluta la notizia che stamattina gli ha letteralmente fatto fare un balzo nel letto, come lui stesso racconta, intervistato dalla ‘Regione’. La notizia è la cattura, dopo trent’anni di latitanza, di Matteo Messina Denaro, il boss della mafia siciliana dopo gli arresti di Totò Riina e Bernardo Provenzano, nel frattempo deceduti. Montone griffato, cappellino e al polso un Franck Muller da 35mila euro. Accerchiato, si è consegnato alle 8.20 mentre stava per iniziare la seduta di chemioterapia alla clinica Maddalena di Palermo.

Quando si è reso conto d’essere braccato, ha accennato ad allontanarsi. Non una vera e propria fuga visto che decine di uomini del Ros dei Carabinieri, armati e col volto coperto, avevano circondato la casa di cura. I pazienti, tenuti fuori dalla struttura per ore, si sono resi conto solo dopo di quanto era accaduto e hanno applaudito i militari. Stessa scena fuori dalla caserma Dalla Chiesa. Una piccola folla ha atteso i pm e mostrato uno striscione con scritto: "Capaci non dimentica". I magistrati hanno poi sottolineato che a farli arrivare al boss sia stata un’indagine tradizionale: nessun pentito, nessun anonimo.

Messina Denaro è stato preso con la stessa strategia che portò all’arresto di Provenzano: prosciugare l’acqua attorno al latitante, disarticolando la rete dei favoreggiatori. Favoreggiatori anche eccellenti: "Una fetta della borghesia lo ha aiutato", ha detto il procuratore Maurizio De Lucia. Poi l’errore fatale dei familiari del boss, che parlando tra loro, pur sapendo di essere intercettati, hanno fatto cenno alle malattie del capomafia. L’inchiesta è partita da lì.

E indagando sui dati dei pazienti oncologici, si è riusciti a stilare una lista di pazienti sospettati. In primis Andrea Bonafede, parente di un antico favoreggiatore del boss. Avrebbe un anno fa subìto un intervento al fegato alla Maddalena. Ma nel giorno in cui doveva trovarsi sotto ai ferri, hanno scoperto i magistrati, Bonafede era a casa sua a Campobello di Mazara. E allora il sospetto che il latitante usasse l’identità di un altro si è fatto forte. La prenotazione di una seduta di chemioterapia a nome di Bonafede ha fatto scattare il blitz.

Messina Denaro, trasferito subito in una località segreta, sarà destinato a un carcere di massima sicurezza.


Messina Denaro portato via dai carabinieri (Keystone)

Giudice Ayala, cosa significa questo arresto?

Stamattina ero a letto, ancora in dormiveglia, a un certo punto è squillato il telefonino che avevo sul comodino. Ho risposto ed era un mio carissimo amico che aveva appena saputo dell’arresto e aveva carinamente pensato di informarmi subito. Io ho fatto un salto nel letto. Non le dico altro. Perché, certo, sono passati trent’anni di latitanza, però resta una bella vittoria delle istituzioni italiane.

Tuttavia resta il fatto che sono passati trent’anni e che ormai Messina Denaro è malato, più o meno come era accaduto con Riina e Provenzano.

La critica è facilissima e ci sta. I trent’anni sono passati e una latitanza che dura trent’anni non è una cosa normale. Evidentemente quest’uomo ha usufruito di una grande rete di protezione: non mi chieda da chi sia composta, perché non mi avventuro con i sospetti. Certo non posso escludere nulla e nessuno. La latitanza di Messina Denaro è comunque finita, come per Riina e Provenzano, anche loro latitanti per decenni e poi arrestati. E come Messina Denaro sono stati arrestati in Sicilia.

Perché tutti in Sicilia? Sembra il paradosso di chi non trova gli occhiali e poi li ha sul naso…

Il punto fondamentale è che a questi qui i mezzi finanziari non mancherebbero, e potrebbero andare sicuri alle Maldive, al caldo, al freddo, dove gli pare. Ma non se ne possono andare perché se se ne vanno dal territorio, dalla Sicilia, perdono il comando. E quindi, dov’è stato arrestato Riina? A Palermo. E Provenzano? A Corleone. Messina Denaro? A Palermo pure lui. Questi non se ne vanno. Quindi a maggior ragione, decenni di latitanza fanno pensare a reti di copertura. Resta l’importanza di un arresto avvenuto, che non si può sminuire e che sarebbe sbagliatissimo sminuire.

E ora si chiude davvero un capitolo nella storia della lotta a Cosa Nostra?

Si chiude la stagione dei corleonesi. Perché pur essendo Messina Denaro un trapanese, era un grande alleato di Riina e Provenzano. Quindi si chiude la stagione della mafia stragista. Perché bisogna ricordarsi che nella storia ultrasecolare della mafia, solo il periodo dei corleonesi – durato 14-15 anni, dal 1979, anno dell’uccisione di Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo, al 1993, anno delle stragi a Roma, Firenze e Milano – è stato segnato dalle stragi. Fino ad allora la mafia aveva sempre fatto in modo che su di lei non si accendessero i riflettori. E quindi non aveva mai ucciso magistrati, poliziotti, giornalisti. I corleonesi s’inventarono questa strategia stragista. Gente senza scrupoli: ricordiamo che tra le vittime di Firenze c’era una bambina di due mesi. Messina Denaro era l’ultimo esponente in libertà di questo gruppo stragista, quindi si chiude una stagione di Cosa Nostra. E se partiamo dalle stragi del 1993 e arriviamo a oggi, la mafia non ha mai più agito così. E la strategia è cambiata.

Quindi col senno di poi, nonostante la scia di morti e terrore, possiamo dire che la loro strategia è fallita?

Certo, una strategia fallita. Perché la società civile l’ha pagata a cara, e lo sappiamo bene. Ma la mafia ha pagato prezzi altissimi, esponendosi.

Cosa accadrà ora?

Le faccio un esempio forse condizionato dall’esperienza della pandemia. Cosa Nostra oggi non è ricoverata, intubata, moribonda. Però è in corsia per accertamenti, non se la passa tanto bene. Ma non pensiamo che stia morendo, la strada è ancora lunga.

E qual è la strada?

Ancora una volta mi trovo costretto a citare Giovanni Falcone, che di cose giuste su questo argomento, e non solo, ne ha dette tante. Falcone sosteneva che doveva cambiare la società, doveva venire meno quel consenso – non generale per carità di Dio – ma che in certi settori della popolazione siciliana c’è. Ad esempio ha colpito, e non solo me, ma anche altri vecchi colleghi, il fatto che dopo l’arresto tutte le persone nella clinica hanno applaudito i carabinieri. Trent’anni fa una cosa del genere non sarebbe mai successa. Inoltre, alcuni giovani sono andati a mettere fiori sotto l’albero di Falcone. Questi sono segnali di una società che cambia e che dimostrano che la mafia trova sempre più difficoltà ad avere coperture, a muoversi con garanzie di poter svolgere le sue attività senza che nessuno collabori. E sempre Falcone diceva che la mafia, essendo un fenomeno umano, per quanto il più deteriore che si possa immaginare, ha avuto un inizio, sta avendo uno svolgimento e inevitabilmente avrà una fine. Certo che quando ci sarà la fine io, anche se ho una certa età, quel giorno spero tanto di esserci.

E com’è stata la reazione dei suoi ex colleghi? Vi siete sentiti?

Ci siamo sentiti con i colleghi del pool antimafia. Ho conservato negli anni rapporti che non è facile descrivere, che noi definiamo di fratellanza, ad esempio con Peppino Di Lello, Leonardo Guarnotta, Gioacchino Natoli. Io non facevo parte del pool, ma ero il pubblico ministero di riferimento, quindi in pratica lavoravo con loro, ed è rimasto tra noi un legame forte, anche se siamo invecchiati tutti. C’è anche chi è diventato sordo, come Di Lello, ognuno ha i suoi guai, eppure siamo sempre lì a sostenerci, un rapporto davvero speciale. Abbiamo gioito e ricordato, inevitabilmente Giovanni e Paolo (Falcone e Borsellino, ndr).


Foto segnaletiche del boss (Keystone)

Agganci ticinesi

Il ‘locarnese’ Domenico ‘Mimmo’ Scimonelli

Risale al 28 gennaio 2017 la prima volta che si è parlato dei legami di Matteo Messina Denaro con il Canton Ticino. Era stato il procuratore generale Alberto Alfonso del Tribunale di Milano che in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, fra i molti temi toccati, si era soffermato sulla criminalità organizzata, facendo riferimento a un’inchiesta sui lavori per Expo 2015 della Direzione distrettuale antimafia di Milano, all’epoca diretta da Ilda Boccassini.

Lavori per 18 milioni di euro, assegnati a un consorzio di imprese, riconducibili a un impresario edile, risultato essere vicino all’entourage di Matteo Messina Denaro, indicato a chiare lettere dal procuratore generale Alfonso, anche perché ne aveva parlato nel corso della requisitoria il pm Paolo Storari, nel corso del processo terminato con la condanna di tutti gli imputati per il reato di associazione per delinquere finalizzata a favorire gli interessi di Cosa Nostra, ovvero Matteo Messina Denaro. Nel corso del processo era stato sostenuto che una dazione di denaro, proveniente dal mega appalto per i lavori per Expo 2015 erano finiti a Lugano su alcuni conti correnti del super latitante. Un convincimento che derivava dal fatto che Messina Denaro era stato in possesso di carte di credito e bancomat messe a disposizione da Domenico ‘Mimmo’ Scimonelli, 54enne boss mafioso, nato a Locarno da genitori siciliani.

Scimonelli in Ticino ha vissuto sino all’età di 18 anni. Poi, si è trasferito a Partanna, provincia di Trapani, comune poco distante da Castelvetrano, dove è nato Matteo Messina Denaro. Considerato l’‘uomo bancomat’ del capo dei capi di Cosa Nostra, lo ‘zio Mimmo’, come chiamato dai componenti del clan mafioso di Partanna, come documentato dagli investigatori della Dda di Palermo, prima dell’arresto nell’agosto 2015, aveva effettuato numerosi viaggi a Lugano, per controllare i movimenti bancari legati alle carte di credito e al bancomat in uso a Matteo Messina Denaro. L’arresto nell’agosto di Domenico Scimonelli era dovuto al fatto che due pentiti lo avevano indicato come il mandante di un omicidio consumato davanti a un bar di Partanna il 21 maggio 2009. I sicari avevano ucciso un 47enne pastore, reo di aver rubato un furgone, carico di alimentari per 100mila euro, del supermercato di proprietà di Domenico Scimonelli, condannato all’ergastolo nei tre gradi di giudizio. Il ‘ticinese’ di nascita, in un secondo processo, è stato condannato in via definitiva, a 14 anni, nel processo a carico di dieci imputati, in quanto riconosciuto colpevole del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzata al favoreggiamento della latitanza di Matteo Messina Denaro. Il ruolo di Domenico Scimonelli era quello del postino dei pizzini del capo dei capi di Cosa Nostra, sino al momento dell’arresto che ha posto fine ad una latitanza durata trent’anni.

Quell’arresto del 1993 nel Bellinzonese

Nel novembre del 1993 viene estradato in Italia Antonio Messina, classe 1946, avvocato: considerato dagli inquirenti italiani esponente di primo piano della mafia trapanese, l’uomo è stato arrestato dalla Polizia cantonale pochi mesi prima, la sera del 13 agosto, in una pizzeria di Arbedo-Castione, dove si era recato a cenare con la moglie e la figlia che dalla Sicilia lo avevano raggiunto in Ticino. Il fermo scatta dietro mandato di cattura internazionale ed è il frutto della collaborazione fra investigatori italiani e svizzeri: il pedinamento, fra l’altro, delle due donne li ha portati all’arresto del ricercato avvocato trapanese. Dopo quattro mesi in una cella del penitenziario della Stampa, durante i quali cerca, invano, di opporsi all’estradizione, Antonio Messina viene consegnato a Chiasso alle forze dell’ordine italiane. Gli inquirenti siciliani lo ritengono un cervello del riciclaggio. E uno vicino a Matteo Messina Denaro.

Come risulterà dall’inchiesta condotta dall’allora procuratrice pubblica Carla Del Ponte, in Ticino Antonio Messina aveva un ‘pied-à-terre’ nei dintorni di Lugano. L’importanza del suo arresto era stata peraltro confermata, una settimana dopo il fermo dell’avvocato, dalla trasferta in Ticino, dove si era incontrato con gli inquirenti svizzeri, dell’allora procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli.