Il 19 luglio del 1992 un'autobomba in via D'Amelio a Palermo uccideva il giudice e cinque agenti della scorta. A distanza di tempo, restano ancora ombre
Erano le 16.58 del 19 luglio 1992 quando il giudice Paolo Borsellino accompagnato dagli agenti della scorta scendeva dall'automobile per andare a trovare la madre e la sorella che vivevano in un palazzo in via Mariano D'Amelio, a Palermo. In quel momento, una Fiat 126 rubata imbottita di esplosivo e parcheggiata davanti al numero civico 21 trasformava via D'Amelio in un inferno di fiamme, macerie, resti umani. L'esplosione, violentissima, uccideva Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi, prima donna a far parte di una scorta di polizia in Italia e a cadere in servizio. Si salvò solo l'agente Antonino Vullo, che in quel momento era andato a parcheggiare una delle auto della scorta.
A 57 giorni dalla strage di Capaci, il 22 maggio del 1992, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, Cosa Nostra mostrava ancora una volta il suo volto feroce massacrando uno dei simboli della lotta delle istituzioni alla mafia. La portata terribile della tragedia sta tutta nelle parole rilasciate a caldo a un giornalista dal procuratore di Palermo Antonino Caponetto: "È finito tutto".
Per la strage furono condannati i principali esponenti di Cosa Nostra dell'epoca, da Totò Riina a Bernardo Provenzano, Nitto Santapaola e Matteo Messina Denaro, oltre agli esecutori materiali fra i quali Gaspare Spatuzza, che con la sua decisione di "pentirsi" e diventare collaboratore di giustizia aiutò a far luce sull'attentato.
Rimangono però, dopo 31 anni, ancora misteri e ombre: come il caso del falso pentito Vincenzo Scarantino, autoaccusatosi della strage per poi ritrattare, sostenendo di esser stato costretto, anche tramite maltrattamenti in carcere, da alti vertici della polizia a dichiarare il falso per sviare le indagini, e infine essere del tutto scagionato da Spatuzza e giudicato inattendibile. E, su tutti, il mistero della sparizione dalla scena del crimine dell'agenda rossa del giudice Borsellino, che secondo quanto scritto dai giudici del tribunale di Caltanisetta in una sentenza dello scorso anno nel processo sui depistaggi, sarebbe da attribuire non alla mafia, ma a soggetti esterni a essa, facenti parte dell'apparato istituzionale dello Stato e interessati, in qualche modo, all'eliminazione di Borsellino e ad alterare le indagini sulle responsabilità non mafiose nell'attentato.