Le divisioni in seno all’area ‘progressista’ esistono da secoli. Il congresso Ps di domenica ci dirà che ne sarà dell’ennesimo conflitto
Il cammino del Ps verso il Congresso, in programma domenica prossima, si è rivelato più accidentato del previsto. L’esclusione dalla lista rossoverde di Amalia Mirante – giunta due volte seconda nella corsa per il governo nel 2015 e nel 2019, dietro Manuele Bertoli – ha irritato la minoranza che si riconosce nelle sue posizioni. Nel frattempo i frondisti del ForumAlternativo hanno fatto sapere che non appoggeranno la lista, frutto di un compromesso al ribasso. Mentre scriviamo non sappiamo quali iniziative intraprenderà il gruppo dissidente se non otterrà soddisfazione.
La vocazione alla divisione nella sinistra è una malattia endemica, mai eradicata. La storia del socialismo è costellata di lacerazioni, scissioni e addii colmi di astio e rancori. Il contrasto prende avvio con la Rivoluzione francese per ramificarsi poi nei secoli successivi, intrecciandosi con le vicende dei singoli paesi: giacobini/girondini, bolscevichi/menscevichi, massimalisti/riformisti, radicali/moderati, stalinisti/trotzkisti, idealisti intransigenti/realisti un po’ liberisti… Insomma, uno spettro variopinto e dedito agli azzuffamenti intestini, che spesso ha favorito l’ascesa al potere delle forze avverse, anti-democratiche, fasciste e naziste, come avvenne in Italia, Germania e Spagna dopo la Grande Guerra.
Anche in Ticino la contesa inizia assai presto, tredici anni dopo la nascita del Partito. Nel 1913 il giovane Guglielmo Canevascini rivolge pesanti accuse al compagno avvocato Mario Ferri, colpevole di inazione e di collusione con i poteri dominanti. «Contro la reazione poliziesca che in questi ultimi anni è andata inferocendo nella nostra "libera" Svizzera, il Partito Socialista Ticinese non ha saputo opporre neanche la protesta platonica», annota su Libera Stampa, giornale fondato in polemica con l’organo ufficiale, L’Aurora (che poi chiuderà, sconfitta ed esausta, nel 1916).
La lunga militanza di Canevascini è nota: entrato in Consiglio di Stato nel 1922, rimarrà spesso l’ago della bilancia della politica ticinese fino alla conclusione, nel 1959, della sua carriera nell’esecutivo. Solo nell’anno della sua morte, nel 1965, inizierà a formarsi intorno al periodico Politica Nuova un robusto dissenso sulla linea che aveva innervato l’intesa ventennale con i liberali-radicali, degenerata nell’«immobilismo» e nel «clientelismo». Naturalmente, al fondo, c’è dell’altro: circola un’aria nuova, si rilancia il marxismo attraverso le teorie della Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Marcuse), i movimenti giovanili e femminili reclamano ascolto e considerazione, e anche nei partiti storici emerge il bisogno di svecchiare apparati e retaggi legati al passato, arrugginiti e refrattari al cambiamento. Proteste e rivolte che nel 1969 porteranno alla nascita del Partito Socialista Autonomo.
Da quell’anno prende avvio, sia nelle istituzioni che nelle organizzazioni sindacali, la lunga marcia dei socialisti autonomi, prima «anticapitalisti» e «rivoluzionari» e poi «razionali» e «progettuali». Inevitabile, ancora una volta, lo scontro con la vecchia guardia del Pst, ostile alla riunificazione (propugnata, tra l’altro, dall’espulso Dario Robbiani con la sua Comunità). Nel dicembre del 1986 una risoluzione del Comitato cantonale del Psa chiude ogni spiraglio: «Lo sviluppo del processo di rinnovamento unitario dei socialisti, con tutto ciò di positivo che comporta per il rafforzamento della sinistra ticinese, passa attraverso la sconfitta politica ed elettorale del gruppo dirigente del Pst». Si arriva così al «terremoto elettorale» del 1987, che porta in governo, per la prima volta nella storia, due socialisti: Rossano Bervini e Pietro Martinelli. I due coabiteranno per quattro anni senza prendersi a cornate ma senza accordarsi su una visione comune. La sconfitta di Bervini nel 1991 apre infine la strada all’agognata ricomposizione (formazione del Partito Socialista Unitario).
Lieto fine, acqua passata? Nemmeno per sogno. L’amalgama tra le due correnti riesce solo in parte, sottotraccia sopravvivono divergenze sui metodi e gli obiettivi, tant’è vero che nel 2001 Rossano Bervini vara il «Manifesto Liberalsocialista», in cui si delinea «una visione del mondo fondata sulla capacità umana di generare idee e di realizzarle, agendo in modo volontario e responsabile».
Le diverse sensibilità sono tuttora rintracciabili anche sul piano nazionale, tra una scuola «socialista» d’impronta francese e una tradizione «socialdemocratica» d’ispirazione tedesca, fondata sull’«economia sociale di mercato». Nel 2021 alcuni esponenti di questa linea si sono riuniti nell’associazione «Piattaforma riformista», mossi dall’idea che il Ps dovesse «tornare a essere pragmatico» e quindi guardare più al centro che alle ali estreme inclini alla mobilitazione e alla lotta. In particolare la Piattaforma chiedeva un maggior impegno su tre questioni fondamentali: un ulteriore sviluppo di un’economia di mercato sociale; un rafforzamento delle relazioni istituzionali con l’Unione europea; un’efficace difesa nazionale.
Questa divaricazione nel modo di intendere il socialismo moderno è riaffiorata anche nel recente congresso di Basilea e con tutta probabilità ricomparirà anche nelle assise dei socialisti ticinesi di domenica. Finora ha prevalso, nei diversi raduni organizzati dai due co-presidenti Riget-Sirica, l’ala «radical-socialista» sulla frazione «liberal-socialista». Gli iscritti decideranno.
Molti militanti non amano anteporre al programma il ruolo del leader, il nocchiero che indica la rotta. Si è sempre sostenuto, almeno in linea di principio, che ciò che contava veramente era la piattaforma ideologica e non le singole ambizioni personali. «Prima i contenuti, poi i candidati». In realtà questo primato dell’elaborazione teorica si è rivelato, e non solo in Ticino, assai illusorio. Il citato caso del «padreterno» Canevascini è significativo: trentasette anni d’ininterrotta presenza in governo, personalità solida e carismatica, punto di riferimento per l’intero movimento operaio fin dall’epoca della prima guerra mondiale. Il passaggio all’opposizione non è mai stato preso in seria considerazione, sebbene non siano mancati, in determinate fasi critiche, arrabbiature e tentazioni di rottura (ad esempio nel 1978, con il varo del Progetto di alternativa socialista). Questo per dire che i programmi non camminano da soli: per farli avanzare occorrono testa, cuore e gambe. Insomma, storicamente la figura del Consigliere di Stato è stata centrale e rimane tale non solo per i socialisti, ma per l’intero sistema dei partiti che sorregge l’impalcatura della nostra piccola repubblica.
Il sistema, com’è noto, è fondato sulla collegialità; nel caso specifico, sulla collaborazione tra quattro formazioni: Lega, Partito liberale-radicale, Il Centro e Ps (un tempo erano soltanto tre). Nessuno detiene la maggioranza assoluta per imporre il proprio programma al Paese, ognuno deve muovere le proprie pedine su una scacchiera mobile, fatta di dialogo, alleanze e compromessi, senza mai poter dire di aver raggiunto pienamente gli obiettivi elencati nelle risoluzioni congressuali.
Un ultimo punto: che ne sarà del seggio al Consiglio degli Stati attualmente occupato da Marina Carobbio? Il partito tiene in serbo una candidatura di sicuro prestigio, oppure si darà per rassegnato? Forse varrà la pena di sollevare anche questo argomento, perché Berna non è meno importante del Ticino.