Francesca Rigotti e Giulio Tremonti: due personaggi che sembrano emergere da qualche solaio, o da un muffo retrobottega di robivecchi, tanto stantie apparivano le loro esternazioni pubbliche. Crinoline e redingotes, né più né meno.
Eppure, eppure.
In questa tremenda temperie le loro riflessioni ci giungono invece, pur da tali siderali distanze, come scampoli di saggezza. La Rigotti (20 minuti, 6 settembre) ha parlato di "società della paura" e di clima dominato da ansie spesso immotivate, avvertendo dei rischi non solo emotivo-psicologici legati a questa deriva, e lanciando un appello contro gli allarmismi e per una corretta e obiettiva valutazione delle situazioni; Tremonti (Corsera, stesso giorno) ha ribadito la propria critica alla degenerazione del global-capitalismo – in particolare alla finanziarizzazione dell’economia e della gestione delle crisi sistemiche – e ha stigmatizzato il meccanismo perverso legato alle sanzioni, facili da decidere (sull’onda dell’emotività e della retorica, e di qualche elezione in agguato) ma con perversi cavalli di ritorno su chi le impone. Sergio Romano aveva tentato lo stesso esercizio, mesi fa, a proposito delle cause della guerra, accolto dal silenzio e addirittura da qualche commiserazione, con il rischio concreto e immeritato di trasmigrazione dalla categoria arbasiniana di venerabile maestro a quella di… vecchio rintronato.
Sono interventi che si accampano in un contesto informativo generale dominato dalla narrazione tremendamente ansiogena ed emotiva di gran parte dei media, addirittura di quelli più popolari e paludati. Un loro frequentatore può facilmente avere l’impressione che tali mezzi d’informazione ritengano di aver fatto il proprio mestiere e il proprio dovere solo se hanno prospettato il peggio e il rischio esiziale anche senza reali motivi per farlo (un po’ come i nostri contabili pubblici, che ipotizzano cataclismi a preventivo per giustificare i tagli a bilancio, e certificano il meglio a consuntivo per legittimare chi reclama gli sgravi; ma questa è un’altra storia) e favorito una visione manichea e semplificatoria a colpi di demonizzazioni – il tiranno, l’assassino, il mostro – e di santificazioni – l’eroe, l’angelo – assolute.
Il reale letto dai media diventa così una sorta di videogioco, un terreno astratto e un po’ plastificato per esternazioni da social (tra)vestite con i paramenti sacri del giornalismo "alto". Il fatto è che la crisi ha fatto emergere, in modo a volte clamoroso (al netto di poche valorose eccezioni, assai rare in ambito italofono), una cosa che non è di oggi: le lacune dell’informazione, che sono forse anche quelle (linguistiche, culturali, etiche) di parecchi di coloro che sono chiamati a darvi corpo. Confrontato a taluni interventi, in cui anche il peggio viene abbuonato se viene rispettato lo schema retorico-narrativo dominante, qualche lettore gradirebbe venissero riscoperti spirito critico e capacità di analisi, un approccio più fattuale e meno ideologico, una modalità di lettura dei fatti che dia conto, senza semplificazioni né catastrofismi ma anche senza sconti, della complessità delle cose.
Non so se basterebbe, a fini catartici, che certa stampa sciacquasse i propri panni nel Reno o nel Tamigi, ma potrebbe essere di aiuto. Di fronte a talune modalità dell’informazione italofona, la reazione del pubblico non è però quella che vorrebbe chi ci urla quotidianamente negli orecchi che ci aspettano le peggio cose, tempeste perfette e via terrorizzando: il pubblico ormai mitridatizzato reagisce invece con scetticismo nel migliore dei casi, o con indifferenza negli altri. E questo non è affatto un bene perché il progressivo ottundimento delle coscienze, e il grave deficit di credibilità dei media, renderanno più difficile mobilitare quando sarà effettivamente il caso di farlo. L’impressione è che, nel fragore delle parole d’ordine da tregenda lanciate su giornali e a reti unificate, siano andati persi per strada valori e pratiche che fanno l’essenziale della natura e del ruolo centrale della stampa nei nostri paesi democratici, in particolare la capacità di formare e di mobilitare le coscienze.