Che la politica, anche quella internazionale, sia l’arte dell’opportuno e del possibile è ormai diventato un luogo comune. Ma, in un sistema democratico, le scelte dei governanti vanno comunque spiegate e giustificate. Soprattutto quelle che sembrano uscire dai percorsi abituali del Paese. La "neutralità permanente" adottata dalla Svizzera e "riconosciuta" sin dal Congresso di Vienna del 1815 (ma a ragion veduta non figurante nella nostra Costituzione), fa senz’altro parte delle nostre caratteristiche politiche fondamentali, addirittura assurta a criterio di riferimento internazionale. Come ogni pratica politica ha tuttavia anch’essa conosciuto attraverso le vicende storiche degli importanti aggiustamenti e alcune necessarie ridefinizioni. In particolare, davanti all’adozione di sanzioni internazionali. La proclamazione unilaterale dell’indipendenza della Rhodesia del Sud da parte del governo razzista di Ian Smith nel 1965 e le sanzioni economiche adottate dalle Nazioni Unite obbligarono il Consiglio federale a definire il concetto di "courant normal" dei nostri scambi con quel regime, che non facesse quindi della Svizzera il crocevia dei traffici a questo destinati.
Tale politica di solidarietà alla comunità internazionale fu poi rispettata, in particolare, anche verso la Russia, la Corea del Nord e l’Iran (D. Warner, ‘Goodbye (Swiss) neutrality?’). Nei confronti di quest’ultimo Paese, nel quale la Svizzera si accingeva a rappresentare gli interessi americani, Berna si rifiutò però d’applicare le sanzioni economiche che Washington e gli alleati imposero nel 1980 per ottenere la liberazione degli ostaggi della loro ambasciata occupata. Niente fu ugualmente fatto per impedire che il franco fosse usato dall’Iran come moneta alternativa al dollaro nei suoi scambi internazionali. Va detto che né gli Usa né la Repubblica islamica attribuirono a questa posizione un particolare significato diplomatico. Il nostro Paese rappresentava d’altronde allora l’Iran stesso in Egitto e gli interessi americani a Cuba dal 1961 (M. Bedjaoui, F. Meroni, A. Salamatian, ’L’Amérique en otage’).
Le sanzioni europee furono per contro in buona parte adottate nel 1998 nei riguardi della ex Jugoslavia, nel contesto del conflitto del Kosovo. Davanti all’aggressione della Russia in Ucraina, il Consiglio federale ha senza tardare dichiarato di stare "dalla parte della pace, della democrazia, dei diritti umani e del diritto internazionale". Lasciando così intendere che la neutralità non è che uno "strumento di sicurezza politica ed economica da adattare" alle circostanze, che vedono oggi un’"aggressione militare di uno Stato sovrano e democratico e un’escalation senza precedenti in Europa dalla Seconda guerra mondiale". Il richiamo, "senza compromessi possibili", ai valori di riferimento della Confederazione non possono qui oscurare questo nuovo elemento di minaccia reale percepita a Berna alla nostra sicurezza nazionale. Preparandosi all’adozione delle sanzioni dell’Ue, il Consiglio federale ha ritenuto comunque utile richiamare lo "stretto senso del termine neutralità" come definito dai trattati internazionali: "Non favorire militarmente alcuna delle parti in guerra". Se questo nuovo escamotage diplomatico possa, grazie ad eventuali aggiustamenti, salvare l’immagine e il ruolo storicamente riconosciuto al nostro Paese si potrà verificare solo nei prossimi anni.
Intanto, però, il Ministero degli esteri russo ci ha già fatto sapere che "la Svizzera – avendo adottato le sanzioni illegali dell’Occidente – ha sfortunatamente perso il suo statuto di Stato neutrale e non può agire né come intermediario né come rappresentante [degli interessi ucraini, ndr]". Non sorprende che il Consiglio federale abbia ammesso come l’adozione delle sanzioni internazionali abbia già definitivamente liquidato le possibilità per la Svizzera di offrire i suoi "buoni uffici", quindi di mediare fra i belligeranti. Ma l’intermediazione e la rappresentanza sono tutt’altra cosa e a Mosca dovrebbero saperlo. Le nostre ambasciate in Russia e Georgia rappresentano attualmente gli interessi reciproci dei due Paesi, che hanno rotto le relazioni diplomatiche. Il sopraccitato esempio delle lunghe trattative per la liberazione dei diplomatici americani tenuti in ostaggio dal 1979 al 1981 a Teheran ci aiuta a capire che la rappresentanza degli interessi di un Paese non sottintende affatto il suo ruolo di mediatore nel conflitto che l’oppone al Paese ospite. Anzi, qualora esso l’avesse più o meno formalmente esercitato, questo gli sarebbe ufficialmente tolto al momento dell’accreditamento del mandato di potenza protettrice. Capitò così alla Svizzera, che in seguito alla rottura formale dei rapporti diplomatici fra gli Usa e la Repubblica islamica e l’assunzione del mandato di rappresentanza da parte della diplomazia elvetica, dovette poi cedere il testimone dei negoziati in corso, affidato dai khomeinisti in posizione di forza, all’Algeria, Paese islamico e leader terzomondista.
È d’altronde chiaro che in questo genere di crisi dove i due Stati protagonisti s’oppongono in modo irriducibile, non è opportuno fare dell’arbitro-mediatore una persona senza poteri, un semplice intermediario incaricato di presentare le posizioni dell’uno all’altro contendente. Sarebbe infatti essenziale in una crisi come quella russo-ucraina riconoscere al mediatore un potere sostanziale d’apprezzamento e un’autonomia di proposta che poco hanno ovviamente a che fare con quella di una potenza protettrice d’interessi di uno Stato nemico. E la diplomazia elvetica non certo a questo pensa offrendo oggi i suoi servizi di rappresentanza dell’Ucraina a Mosca.