Il telelavoro, un’eredità del Covid-19, rappresenta un approccio al lavoro diverso. Si è, infatti, affermato il lavoro da remoto, per cui si può svolgere attività lucrativa anche dal proprio domicilio senza più recarsi al luogo di lavoro. Recentemente, su questo tema, è stata presentata a livello parlamentare un’interrogazione dalle deputate Cristina Maderni e Sabrina Gendotti.
Questa novità sta, infatti, modificando non soltanto alcuni aspetti sociali e familiari, ma porterà anche conseguenze fiscali che potrebbero generare una nuova conflittualità tra gli Stati, in particolare tra Italia e Svizzera.
Per la necessità e il dovere di riproporre un giudizio, anche se indiretto, sul Nuovo Accordo sulla fiscalità dei frontalieri, che probabilmente entrerà in vigore con l’inizio del prossimo anno, questo aspetto, per forza di cose, necessita di un approfondimento; a nostro modo di vedere, come si dirà in seguito, occorre una presa di posizione tempestiva, che non è ancora stata adottata. Un ulteriore rinvio potrebbe comportare conseguenze fiscali spiacevoli per i lavoratori frontalieri. Per essere più concreti, già oggi, ma ancor più in futuro, è molto probabile che un numero considerevole di frontalieri svolga un lavoro, retribuito da un datore di lavoro con sede in Svizzera, da casa propria in Italia. Nasce, quindi, l’interrogativo riferito a quale Stato, l’Italia o la Svizzera, spetti il diritto di esercitare la propria sovranità fiscale.
Una difficoltà d’interpretazione sorge dalla conflittualità tra l’art. 15 cpv. 1 della Convenzione italo-svizzera contro le doppie imposizioni e l’Accordo sui frontalieri, sia nella sua attuale formulazione sia nella nuova versione. Infatti, ipotizzando che un frontaliere lavori dall’Italia (da casa propria), pagato da un datore di lavoro svizzero, senza passare giornalmente il confine, costui deve considerarsi imponibile soltanto nel suo Paese di residenza. Non è, quindi, applicabile l’Accordo sui frontalieri in quanto non sarebbe rispettato il criterio del rientro giornaliero al domicilio: ne consegue che l’imposta alla fonte non può essere prelevata.
Per il momento, in apparenza, questa problematica sembrerebbe superata sulla scorta dell’Accordo amichevole sulla tassazione dei frontalieri siglato da Svizzera e Italia nel giugno 2020. Secondo questa normativa, in via eccezionale e provvisoria, il telelavoro non altera la ripartizione della potestà impositiva tra i due Stati, per cui, da un lato, l’imposta alla fonte continua a essere prelevata anche nel caso in cui il lavoratore lavori da casa propria oltrefrontiera e, dall’altro, all’Italia non è consentito tassare lo stesso reddito, fintanto che la situazione pandemica è in corso. Questo accordo amichevole, segnatamente, "cesserà di essere applicabile l’ultimo giorno del mese in cui l’ultimo dei due Stati ha posto fine alle misure sanitarie governative che limitano o sconsigliano la normale circolazione delle persone fisiche. Le autorità competenti si accorderanno preventivamente su tale data".
Per quanto ci è dato sapere, non sembra che Italia e Svizzera abbiano sinora modificato questo accordo. Situazione sorprendente poiché sembrerebbe che le misure sanitarie riferite al Covid-19, che limitano la circolazione delle persone, non esplichino più effetti. La nuova modalità di lavoro da remoto necessita evidentemente di una regolamentazione appropriata e tempestiva da parte dei due Stati. In difetto di norme ad hoc, l’Italia potrebbe imporre questo reddito in via esclusiva; contestualmente il Ticino potrebbe continuare a prelevare l’imposta alla fonte. In tal caso, tuttavia, tale prelievo contravverrebbe sia alle norme di diritto interno conformemente alla giurisprudenza del Tribunale federale, sia a quelle del diritto internazionale, in quanto in entrambi i casi si presuppone la presenza fisica nel luogo di lavoro. Questo a livello generale e nella sua interpretazione più ampia.
Diversi sono i casi in cui, invece, la deroga al criterio del rientro giornaliero sia parziale nel corso dell’anno. Ad esempio, si può pensare quale fattispecie verosimile, al caso di un lavoratore frontaliere che nel corso dell’anno, retribuito da un datore di lavoro con sede in Svizzera, svolga la propria attività in telelavoro dall’Italia per una mensilità, recandosi per il resto dell’anno nel luogo di lavoro in Ticino (ipoteticamente 1-2 giorni a settimana). In questa ipotesi, l’Italia ha il diritto d’imporre esclusivamente il reddito percepito dal lavoratore per il mese di lavoro in remoto, secondo l’art. 15 cpv. 1 CDI CH-I. Al pari tasserà anche le restanti undici mensilità, venendo, infatti, meno lo statuto di frontaliere in assenza del rientro quotidiano e, quindi, non essendo applicabile l’Accordo sui frontalieri, bensì le regole ordinarie dell’art. 15 CDI CH-I.
Il Ticino, dunque, continuerà, come consentito dall’art. 15 cpv. 1 CDI CH-I, a prelevare le imposte alla fonte per le undici mensilità in cui il frontaliere ha svolto l’attività su territorio svizzero, ma senza dover procedere al relativo ristorno. Resta, in ogni caso, l’obbligo per il lavoratore frontaliere di dichiarare il reddito complessivo in Italia, con diritto al riconoscimento del credito d’imposta per quanto versato all’estero.
La scelta del telelavoro per il frontaliere comporta un onere fiscale di gran lunga maggiore rispetto alla situazione attuale, a fronte delle elevate aliquote italiane applicabili sui redditi del lavoro dei residenti (43% a partire da 75’000 euro). Ci si chiede con grande interesse quali saranno le reazioni delle autorità politiche e amministrative preposte dei due Stati. Un accordo, anche amichevole, è quanto mai urgente per adeguare la fiscalità all’evoluzione del mondo del lavoro. Diversamente, un mancato accordo potrebbe aumentare sensibilmente il carico fiscale dei frontalieri, ma anche il gettito dei due Stati.