"La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi": conosciamo tutti questa celebre definizione di Carl von Clausewitz, generale prussiano membro dello Stato maggiore zarista nel 1812, quando Napoleone invase la Russia. Putin, colonnello dei servizi segreti, si è formato anche lui sul "Della guerra" di Von Clausewitz, testo sacro di tutte le accademie militari, anche dell’Armata Rossa.
Ma Putin, e non solo lui, dovrebbe accorgersi che dopo due secoli un capovolgimento è necessario: non la guerra come mezzo della politica ma la politica come mezzo per evitare la guerra. Perché l’arsenale atomico minaccia non solo l’aggredito ma, come danno collaterale, anche l’aggressore e l’umanità intera. Ma anche perché lui ha perso la guerra in meno di una settimana, fallendone l’obiettivo politico: riportare l’Ucraina alla Grande Madre Russia. Ogni giorno che passa, la sconfitta si aggrava. Può vincere tutte le battaglie, occupare tutta l’Ucraina, frantumare il suo esercito e distruggere le sue città: la sconfitta sarà ancora più "storica" di quella subita in Afghanistan, dall’Urss prima e dagli Usa dopo.
Il perché lo spiega bene lo storico israeliano Harari (The Guardian, 28.2.22), che di conflitti se ne intende visto dove vive. È più facile conquistare un Paese che dominarlo (Iraq e Afghanistan insegnano). Ogni ucraino ucciso accresce l’odio verso gli invasori, che rimane sepolto in fondo al cuore e può alimentare la resistenza per generazioni. Putin contava che le sue truppe sarebbero state accolte come liberatrici dell’Ucraina "dal nazismo" e che avrebbe trovato un "Petain" da insediare a Kiev e un "Pinochet" per pugnalare alle spalle Zelenski. Sapeva che la Nato non avrebbe inviato nessuno a "morire per Kiev" e ha finito per credere alla sua propria bugia: che l’Ucraina non è una nazione vera e gli ucraini non sono un vero popolo. Ha ignorato che nel Novecento gli ucraini hanno cercato l’indipendenza tre volte: quando la Prima guerra mondiale e la rivoluzione bolscevica hanno dissolto gli imperi austro-ungarico, ottomano e zarista; quando Hitler ha invaso l’Urss; quando l’Urss si è suicidata. Al terzo tentativo ci sono riusciti. E così ha trovato un esercito e un popolo disposti a morire per Kiev.
Neppure gli americani e gli europei (ucraini compresi) hanno saputo rovesciare la teoria di Von Clausewitz e utilizzare la politica come mezzo per prevenire la guerra. Ora è troppo tardi per utilizzare solo la politica e non anche le armi. I sinceri sono da rispettare e gli ipocriti da denunciare quando dicono che all’aggressore non si debbano opporre neppure le sanzioni economiche e che agli ucraini, che muoiono e combattono e chiedono almeno le armi per difendersi, si debbano offrire solo i "buoni uffici" della diplomazia. Se i vietnamiti, per fare un solo esempio, non avessero ricevuto armi difensive dai russi e dai cinesi, nonostante il genio di Ho Chi Min e del generale Giap sarebbero stati schiacciati come vermi.
La politica non deve però aspettare l’esito dei massacri o sperare in anni di resistenza partigiana e di sofferenza. Deve agire subito, cosciente che la giustizia ideale non prevale mai negli affari internazionali, come ci ammonisce Noam Chomsky (versione italiana della sua intervista in Naufraghi, 7.3.22). Per far desistere Putin occorre offrirgli una possibilità di "salvare la faccia". Significa mettere sul tavolo l’opzione di un’Ucraina neutrale, ma non smilitarizzata (a meno che la Russia faccia altrettanto…), né interdetta di aderire all’Ue. Significa assicurare al russo la dignità di lingua ufficiale accanto all’ucraino, e alle province del Donbass una forma di autonomia federale. Forse si dovrà anche accettare il ricongiungimento della Crimea alla Russia (anche perché appartiene all’Ucraina, allora repubblica sovietica, solo dal 1954).
Non sarebbe ancora la "politica come mezzo per evitare la guerra", ma almeno la "politica come mezzo per finire rapidamente la guerra".