La rapidità dell’aumento della temperatura globale non ha precedenti negli ultimi 2’000 anni. Negli ultimi 100’000 anni non è mai stato così caldo sulla Terra. L’aumento della concentrazione di anidride carbonica (CO2, gas a effetto serra), dal 1750 è stato causato inequivocabilmente dall’attività umana, mai negli ultimi 2 milioni di anni la concentrazione di CO2 è stata così elevata. L’aumento della temperatura globale causato dalle attività umane è di circa 1 grado. È evidente che le emissioni antropiche di gas serra, CO2 in primis, e la modifica dell’uso del suolo sono il motore del surriscaldamento climatico globale. Numerosi studi di attribuzione associano con chiarezza questo surriscaldamento antropico con l’aumento della frequenza e dell’intensità dei fenomeni estremi sia per quanto riguarda la temperatura (ondate di canicola) che per quanto riguarda le precipitazioni (alluvioni).
Senza fare nulla o implementando solo quanto già deciso finora il fatidico livello di 1.5 gradi di surriscaldamento climatico globale sarebbe raggiunto già nel 2030 e supereremmo i 3 gradi di riscaldamento globale alla fine del secolo (circa 6 gradi in Svizzera).
Questi sono solo alcuni significativi stralci dell’ultimo rapporto Ipcc presentato lo scorso mese di settembre. Questo rapporto sui mutamenti climatici, attualizzato ogni 7 anni, a cui hanno contribuito 234 autori e in cui sono state citate 14’000 pubblicazioni che hanno superato la revisione da parte di esperti in materia, non è mai stato così preciso, dettagliato e allarmante.
Anche il percorso per evitare il disastro climatico è ben definito in termini di riduzione delle emissioni. Per soddisfare l’accordo di Parigi (rimanere sotto 1.5 gradi di riscaldamento) e quindi evitare danni e conseguenze globali disastrose e irreversibili l’umanità deve ridurre del 50% le emissioni entro il 2030 e portarle a un netto di zero al più tardi entro il 2050. Ciò significa una diminuzione annuale delle emissioni del 5-7%.
A fronte di un quadro scientifico così chiaro viene da chiedersi come sia possibile assistere ancora ad accordi e conferenze internazionali fallimentari e a politiche climatiche nazionali non all’altezza della gravità del problema. Anche la Svizzera si ritrova a conti fatti tra i Paesi con le emissioni pro capite più elevate e senza una politica climatica degna di un Paese ricco e altamente tecnologico: la blanda legge sul CO2 è stata infatti bocciata in votazione popolare.
L’attuale sistema economico basato sulla crescita infinita e i relativi interessi delle lobby economiche, quella petrolifera in primis, spiegano solo in parte questa situazione paradossale. Nelle democrazie occidentali una delle ragioni che ha contribuito e contribuisce tuttora a questa situazione di stallo, oltre alla velocità e pericolosità del cambiamento climatico spesso non sufficientemente percepibili dall’individuo, è la pervasiva disinformazione e insinuazione del dubbio nell’opinione pubblica per relativizzare i risultati scientifici e quindi giustificare il sottrarsi dall’obbligo morale di agire subito.
Tutto ebbe inizio con la cosiddetta “strategia del tabacco” lanciata dalle multinazionali del petrolio e confermata da diverse inchieste giornalistiche internazionali. Già prima che il tema clima diventasse di dominio pubblico, negli anni 70-80 del secolo scorso le principali multinazionali petrolifere ebbero accesso a risultati scientifici che erano già in linea con quanto conosciuto oggi. Pur essendo a conoscenza delle evidenti conseguenze dell’uso dei combustibili fossili sul clima, fu messa in piedi una perfida ed efficace campagna di disinformazione molto simile a quella lanciata qualche anno prima dalle multinazionali del tabacco per nascondere i danni alla salute del fumo. Apparirono numerosi articoli di stampa e pubblicità sui maggiori quotidiani del tempo in cui si affermava erroneamente che gli scienziati prevedevano un raffreddamento del clima. Furono divulgate le bufale su presunti effetti solari e vulcanici ben più ampi dell’effetto antropico. Si citarono studi fuori contesto e si usarono studi anche se già smentiti da altri. Elementi puntuali locali furono usati erroneamente per generalizzare a livello globale e scienziati di altre discipline furono usati per veicolare dubbi sui risultati di chi il clima lo studia veramente.
Questa disinformazione veicolata poi in seguito ancora più massicciamente grazie ai social media ha ancora effetti devastanti ai giorni nostri. È di qualche mese fa l’affermazione di un granconsigliere ticinese in un dibattito televisivo che invitava a prendere con le pinze i risultati scientifici attuali perché i climatologi prevedevano un raffreddamento. In realtà già allora la maggior parte degli scienziati del clima, tra cui l’attuale premio Nobel per la fisica Syukuro Manabe, prevedevano un riscaldamento. In un altro dibattito televisivo un consigliere nazionale affermava invece che i cambiamenti climatici ci sono sempre stati e che quindi non bisogna allarmarsi. Lo stesso sottaceva però il dato di fatto che le cause ora sono antropiche e che la velocità di questi cambiamenti è senza precedenti per l’umanità. Un altro consigliere nazionale ha a sua volta ripetutamente postato sulle sue bacheche social contenuti che esplicitamente mettevano in dubbio il problema climatico: le condivisioni sono state centinaia. Non sono inoltre rari gli appelli o i contributi di personalità incompetenti sul clima pubblicati sui quotidiani e sui siti web d’informazione e le pagine pubbliredazionali che tentano di seminare dubbi scientifici, senza alcun fact-checking da parte delle testate.
Le molteplici forme di disinformazione che insinuano il dubbio scientifico tra la popolazione hanno avuto una significativa responsabilità nel fallimento delle politiche di protezione del clima. Se non si riuscirà ad arginare questo pensiero antiscientifico saranno le future generazioni a pagarne gravemente le conseguenze.