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Perché una liberale protesta

Sabato scorso ho partecipato alla manifestazione indetta dai sindacati Ocst e Unia a Mendrisio contro l’aggiramento del salario minimo che, oltre ad ogni altra conseguenza negativa, ostacola ogni partenariato sociale serio. Perché una liberale protesta? Perché ho ritenuto e ritengo tuttora essenziale esprimere un “no” forte e chiaro a salari indegni (14 franchi l’ora!) e un “sì” altrettanto convinto alla dignità del lavoro.
Sarebbe utile non dover ripetere che i nemici più grandi dell’economia liberale sono coloro che ne approfittano, confondendo il mondo con il mercato, le persone con il profitto, la competizione con la concorrenza sleale. Sarebbe bello non dover ripetere che le logiche del mercato non possono minare il consenso a un modello economico e sociale liberale, come a volte avviene per la gioia di nazionalisti e populisti di ogni ispirazione. Essere liberali non significa tollerare – o, peggio, favorire – una libertà economica che può tutto, anche calpestare le persone. Nessuna libertà, neanche quella economica, può togliere la dignità. A nessuno, mai; ne va anche della sopravvivenza della libertà stessa, come la storia tristemente ci insegna.
Vivo a Stabio e sono condirettrice di un sindacato a livello nazionale, ma è soprattutto in qualità di deputata liberale che ho voluto esprimere pubblicamente il mio sentire. Peccato che le voci liberali siano così flebili, peccato che in molti guardino dall’altra parte e permettano così – seppur indirettamente – di rafforzare gli avversari della cultura liberale. Accettare questi salari significa accettare che questi posti di lavoro siano possibili (e a che prezzo personale e sociale!) solo per chi non vive in Ticino o, ancora peggio, anche per chi risiede nel nostro Cantone ma può sopravvivere unicamente grazie ad aiuti statali che la collettività finanzia.
Nella discussione pubblica attorno al caso TiSin e, più in generale, in relazione al salario minimo e al fare impresa in Ticino, c’è chi sostiene che salari bassi siano meglio di aziende chiuse. Che poco sia meglio di nulla. Non è vero, perché è un poco momentaneo ma un danno durevole a medio e lungo termine. Non è un poco, è un meno. Diciamolo una volta per tutte: questa economia, peraltro strenuamente difesa da una certa destra, è un’economia a rimorchio, a rimorchio soprattutto del confine. Aziende in Ticino con costi del lavoro italiani, enclavi economiche che ora ci presentano il conto sociale e politico.
Il frontalierato di massa, in un certo senso l’integrazione tra un mercato di lavoratori stranieri e uno di produttori svizzeri, è oggi diventato un confine politico oltre che economico. Un confine che divide chi cavalca il tema per fare voti e chi non vuole fuggire dalla realtà (quella dei bilaterali, per intenderci) ma neppure lasciarsi dominare da essa. La lotta ai bassi salari congiunge tutto ciò. Sposta il problema dai capri espiatori – i frontalieri – alle vere questioni: la qualità dello sviluppo economico a cui aspiriamo per il nostro Cantone.
Promuovere la cultura liberale significa per me rispettare le diverse visioni del mondo, ma, prima di tutto e sopra ogni cosa, rispettare le persone. La libertà non è solo delle ma anche per le persone. Senza se e senza ma. In Ticino, come altrove in Svizzera, chi lavora deve guadagnare almeno quanto basta per vivere, affinché “prima i nostri” non resti solo uno slogan.