I forconi di Marco Chiesa, il Guglielmo Tell pacificatore anziché ribelle di Karin Valenzano Rossi ("non lanciò strali?"!?). Lo storico Martinetti rifà il punto
Sempre uguale e sempre diverso. Ogni discorso del primo agosto che si rispetti prevede due momenti. Nel primo si rende omaggio alla tradizione, vale a dire alle gesta dell’eroe nazionale, Guglielmo Tell, secondo il collaudato schema dell’insubordinazione all’autorità, considerata illegittima. Il secondo momento prevede invece l’aggancio alle questioni contingenti, agli affanni che affliggono la comunità: squilibri socio-economici provocati dal mercato del lavoro, relazioni con Berna (lontana e sempre troppo sorda alle rivendicazioni delle minoranze), politica estera (rapporti con l’Unione europea).
Gli interventi di maggior impatto quest’anno sono stati due. Il primo lo ha pronunciato il presidente dell’Udc nazionale Marco Chiesa, che si è fatto riprendere in camiciola da alpigiano. Chiesa ha dichiarato guerra (parole sue) alla sinistra urbana, che si è impadronita delle maggiori città elvetiche (salvo Lugano, feudo leghista), vessandole con sempre nuovi divieti e regolamenti. Naturalmente Chiesa sa benissimo che le città da redimere non sono state conquistate dall’odiata «gauche» al caviale attraverso un golpe, ma grazie al risultato di libere elezioni. Poco importa: qui occorre organizzare una nuova campagna alla Sonderbund, poche ciance e mano ai forconi (nei libri di storia si legge però che la ribellione dei cantoni cattolici rurali nel 1847 non ebbe un esito felice).
La neo-municipale liberale Karin Valenzano Rossi, nell’allocuzione che ha tenuto a Lugano di fronte a una platea in parte ostile, ha invece accuratamente evitato qualsiasi atteggiamento bellicoso. Anzi, l’oratrice ha insistito sulla necessità di riprendere il dialogo a tutti i livelli, identificando nella piazza l’agorà ideale in cui esporre e comporre le tensioni che serpeggiano nella cittadinanza. Alle parole seguiranno i fatti? Intanto la faccenda del centro autogestito è nelle mani della magistratura, il che non fa onore alla politica cittadina. La municipale ha infine ricordato la lunga battaglia condotta dalle donne per arrivare al diritto di voto e di eleggibilità a livello federale nel 1971, tappa di un cammino di emancipazione che non si è ancora concluso, specie in ambito lavorativo (parità salariale, opportunità di carriera ecc.).
Ma torniamo al discorso, in larga parte condivisibile. Tranne che in un punto: l’allusione all’impresa di Tell, considerato non come un ribelle ma come un pacificatore («Guglielmo Tell non fischiò, non lanciò strali, non inneggiò alla rivolta ma rimase libero di non riverire l’Autorità»). E no, la leggenda dice l’opposto, narra di un fiero villico che, stanco di subire soprusi e di chinare il capo, decide di vendicare l’onta e di fulminare con un dardo il rappresentante del potere superiore, il balivo Gessler. Gesto che darà il via alla rivolta dei territori forestali e alla distruzione dei castelli, simbolo del potere asburgico.
A rigore saremmo dunque di fronte a un omicida, non a un mediatore o un pacifista alla Gandhi. La qual cosa porta a concludere che alle origini della Lega confederata c’è un atto violento. Legittima difesa e quindi accettabile, giustificabile? Com’è noto la questione del tirannicidio, ossia se sia giusto sbarazzarsi con la forza di un despota usurpatore, ha occupato le menti di giuristi e filosofi della politica per secoli.
Con Tell non siamo di fronte a un’eccezione. Al contrario. Si può dire che ogni processo costituente comporti violenza: insurrezione, rivoluzione, regicidio, conflitti civili, dall’Inghilterra di Cromwell alla Francia giacobina, dal Risorgimento italiano al citato Sonderbund elvetico. Anche il Ticino ebbe la sua vittima, il suo martire: il Consigliere di Stato cattolico-conservatore Luigi Rossi, colpito da una revolverata durante la «rivoluzione» del 1890. Il fatto è che il Ticino moderno, il Ticino della conciliazione tra i partiti, non più nemici ma avversari, sorse da quel sangue versato.
Insomma, anche il mito di Tell, all’apparenza così innocuo, «fabula» buona per tutte le stagioni, è un racconto problematico, che pone interrogativi sul potere e sui suoi limiti, sull’insubordinazione e la disobbedienza. Per questo motivo è riuscito a scavalcare i secoli e le stagioni politiche, talune favorevoli talaltre avverse.
Poi c’è la storia, la ricerca scientifica, il lavoro meticoloso degli specialisti: medievisti, archivisti, paleografi; uno scavo nelle fonti che ha prodotto risultati opposti a quelli tramandati dal mito e che tuttora prosegue nella quiete delle facoltà universitarie. Ma tutto questo non scalda i cuori dei cultori delle saghe medievali, dei romanzi di cappa e spada e dei cicli cavallereschi. È il Medioevo «inventato», che evidentemente piace tanto anche ai politici.