I dibattiti

Equità fiscale, aspettando Buffett

La proposta di ridurre i prelievi sui redditi più alti è eticamente ed esteticamente inopportuna in un clima di incertezza sanitaria ed economica

Il miliardario americano Warren Buffett
(Keystone)

I costi che tuttora sta generando la crisi pandemica, in un clima generale di incertezza sanitaria ed economica, dovrebbero suggerire maggiore prudenza e maggiore attenzione nei confronti di coloro che sono colpiti duramente dalla crisi. È difficile credere che fra questi vi siano i titolari di redditi elevati. Non se sappiamo leggere i segnali che ci vengono forniti dalle vicende di questi ultimi due anni, durante i quali è cresciuta la ricchezza generata dai mercati finanziari a vantaggio di pochi. Ricchezza, conviene ricordarlo, che non è intercettata da tasse sui capital gains. È perciò quantomeno eticamente, per non dire esteticamente inopportuno proporre riduzioni del prelievo fiscale sui redditi elevati in questo travagliato periodo, quando dovrebbe invece valere la “regola di Buffett”, dal nome del miliardario che si lamentò di pagare meno tasse della sua segretaria, esortando le amministrazioni statali del suo Paese a riparare questa ingiustizia. Da allora non mancano le proposte di riforma dei sistemi fiscali, né negli Stati Uniti né altrove.

Sarebbe perciò utile accorgersi anche da noi della portata storica dei cambiamenti in corso, abbandonando l’idea che tutto sia iscritto linearmente nella concorrenza fiscale, dimenticando ogni altro fattore. A cominciare dall’importante spesa sociale che va a completare un reddito a partire da bassi salari per permettere, tra l’altro, all’economia ticinese di avere i salari più bassi della Svizzera.

Ma è sempre inopportuno proporre riduzioni del prelievo fiscale? Certamente no, esattamente come non è necessariamente inopportuno proporre aumenti del prelievo fiscale, fermo restando che ciascuno dovrebbe pagare in funzione della propria capacità contributiva, secondo uno dei numerosi principi cardine di un buon sistema tributario che Adam Smith formulò nella “Ricchezza delle nazioni”.

Ma allora come fissare le aliquote marginali in un sistema tributario ispirato al criterio della progressività, nel quale le aliquote marginali, ossia le quote applicate a singole fasce di reddito e ricchezza del contribuente, aumentano all’aumentare del reddito imponibile?

Le risorse prelevate attraverso la fiscalità servono a finanziare beni e servizi che consentono, tra l’altro, di ottenere quei redditi (elevati) per i quali si chiedono con ricorrenza agevolazioni, sgravi, deduzioni e riduzioni delle aliquote. Si pensi al sistema educativo, che forma personale altamente qualificato, tra cui gli ottimizzatori fiscali, alle reti di trasporto e di comunicazione, che rendono più produttivo il loro lavoro, ma anche alle prestazioni sociali a sostegno di salari troppo bassi per garantire un livello di vita dignitoso, ma sufficienti da permettere a chi li pratica di stare sul mercato e ricavarne redditi elevati.

Come procedere, allora? Come fissare i prelievi fiscali e le aliquote marginali sui redditi elevati? Ebbene, su questo punto esiste un consenso tra gli economisti, come hanno rilevato Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, due economisti francesi che insegnano negli Stati Uniti. Se la fiscalità è intesa come uno strumento al servizio della giustizia sociale, essa deve raccogliere risorse sufficienti da redistribuire e da destinare al sistema educativo e sanitario, ai servizi sociali e all’assistenza sociale, ecc. In questo schema, l’obiettivo non è far pagare ai ricchi una non meglio specificata “giusta parte”, bensì fare in modo che la grande ricchezza di alcuni vada a vantaggio di chi ha meno. In questo senso appare perlomeno curioso che si proponga di compensare le eventuali perdite fiscali derivanti da una riduzione delle aliquote marginali sui redditi elevati con un aumento del moltiplicatore cantonale d’imposta. Come a dire: risparmi fiscali per pochi e spese a sostegno delle politiche pubbliche a carico di molti, con buona pace del principio di equità.

Per venire al punto, in assenza di evasione fiscale, la possibilità di modificare le aliquote marginali deve essere utilizzata in modo tale che, se all’aumentare delle aliquote marginali le entrate fiscali diminuiscono, occorre rivedere al ribasso le aliquote, perché l’obiettivo di incrementare le risorse da destinare ai compiti redistributivi dello Stato sarebbe comunque raggiunto attraverso una riduzione delle aliquote. Se invece all’aumentare delle aliquote marginali aumentano anche le entrate fiscali, allora le aliquote andrebbero ulteriormente alzate, perché maggiori entrate vanno nell’interesse dei membri più svantaggiati della società. Ciò significa, concludono Saez e Zucman, che l’aliquota ottimale sui redditi elevati è quella che garantisce le maggiori entrate fiscali. È vero che qualcuno, tra i più mobili e meno legati al territorio, potrebbe decidere di abbandonare il Paese, ma altrettanti e forse in numero maggiore potrebbero approdarvi, non fosse altro perché in cerca di condizioni sanitarie tranquille e maggiore sicurezza personale. E chissà, perché forse tutto sommato la fiscalità non è percepita come penalizzante. In fondo le aliquote fiscali confiscatorie sono un’invenzione americana, come fece notare Thomas Piketty, e come tali non sono state mutuate da molti altri Paesi. Men che meno da noi.

Considerando l’obiettivo di un gettito fiscale che deve servire a far star meglio la popolazione in generale e quella che sta peggio in particolare, senza ostacolare i legittimi aneliti di libertà di ognuno e ognuna, come insegnano alcune avanzate teorie della giustizia, e sapendo che numerosi studi empirici rivelano che gli aumenti del prelievo fiscale hanno un impatto negativo molto limitato sui redditi prima delle imposte, a dispetto delle narrazioni liberiste, la politica fiscale assume una dimensione che presuppone la disponibilità di dati solidi, accessibili e condivisi. Ebbene, è imbarazzante sottolineare che oggi il dibattito sui temi della fiscalità ha luogo in assenza di tali dati. Conoscere prima di deliberare, come esortava Luigi Einaudi, un liberale d’altri tempi, sembra un esercizio quanto meno arduo nel nostro contesto.