Ancora oggi, seguendo dibattiti e ascoltando interventi di cittadine e cittadini in programmi sull’opinione pubblica, quando si parla di donne che rientrano al lavoro dopo il congedo maternità, si percepisce un sottinteso: la donna rientra per il salario, se avesse la possibilità finanziaria starebbe a casa a curare la prole. Mi sembra triste doverlo ribadire ma la donna non rientra al lavoro solo per il salario, anzi. Il lavoro è una parte fondamentale della vita di tutte/i, non per caso per integrare, ad esempio migranti o persone con disabilità, si ricorre proprio ad esso quale strumento di inclusione. E la donna? Perché non dovrebbe avere lo stesso diritto di chiunque altro di dare un contributo alla società, all’economia e al proprio Paese, non solo sfornando figlie/i? Il lavoro non è solo un mezzo per sopravvivere; se è dignitoso (condizione sine qua non), il lavoro è un tassello fondamentale per sviluppare delle interazioni sociali e per essere riconosciute/i socialmente. Qui non si vuole sminuire le donne che decidono di non lavorare per curare la figlia o il figlio, anzi; si vuole solo sottolineare il diritto alla scelta. Diritto (e possibilità) alla scelta che va inquadrato a livello di leggi e regolamenti da una politica che deve porre al centro l’importanza del lavoro e di un’integrazione attraverso di esso, anche delle donne che scelgono di diventare madri ma che non vogliono poi venir isolate da una parte di vita sociale. A questo discorso si antepone la paura di uno sgretolamento dei valori familiari; eppure sono convinta che sia proprio nella facoltà di una scelta consapevole del proprio ruolo nella società (mamma e/o lavoratrice), che verranno trasmessi alla futura generazione dei valori di rispetto per sé stessi e per le/gli altre/i.