laR+ Speciale Pino Daniele

Maurizio De Giovanni e ‘il genio che interpretò il cambiamento’

Pino Daniele per lo scrittore napoletano, tra il ricordo dell'artista e quello di una piazza più volte teatro di svolta e di congedo, musicale e di vita

Pino Daniele in Piazza del Plebiscito nel 2008. Nel riquadro, lo scrittore napoletano
(Keystone)
3 gennaio 2025
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Il Commissario Ricciardi, i Bastardi di Pizzofalcone, Mina Settembre, Sara. Sono alcuni dei personaggi usciti dalla penna di Maurizio De Giovanni, scrittore, sceneggiatore, drammaturgo e autore televisivo, una delle voci più importanti della Napoli odierna, da lui ritratta a tinte tra il giallo e il noir ma anche negli aspetti calcistici. Come ne ‘Il resto della settimana’ (Rizzoli, 2015), libro che appartiene alla cosiddetta ‘serie sportiva’ di De Giovanni e nel quale si cita il “Che ci siamo persi” che apparve sul muro del cimitero di Fuorigrotta dopo la vittoria dello scudetto del 1987.

Maurizio De Giovanni: quel ‘Che ci siamo persi’ è concetto applicabile a Pino Daniele?

Credo che Pino Daniele abbia avuto la potenza del genio capace di interpretare un cambiamento, e che sia entrato immediatamente nel cuore dei napoletani. Noi abbiamo un grande rammarico ovviamente, quello di averlo perduto troppo presto, ma tutto si può dire tranne che non sia stato riconosciuto come genio e come interprete in vita. Potremmo dire “che ci siamo persi” solo se non fosse stato adeguatamente apprezzato e considerato, ma lo è stato sin dall’inizio, da quando ha cominciato a innovare.

Lei era in Piazza del Plebiscito nel 1981 ma anche nel 2014, pochi giorni dopo la morte. Ci racconta quelle due piazze?

Nel 1981 c’ero come tutti i giovani e anche i non giovani che in quei giorni lo apprezzavano. Fu un momento di grande percezione collettiva della città, attorno a Pino c’era la nuova voglia napoletana di sentire, di rinascere dopo il terremoto. In quel bellissimo fermento ci si abbracciava come se si appartenesse alla stessa famiglia, un sentimento che diventò ancor più vivido e forte nel 1987, con la vittoria del primo scudetto. Anche il flash mob del 7 gennaio 2014 dimostra come questa città abbia un forte senso della consapevolezza collettiva. Quando questo accade, tanto nei momenti belli quanto in quelli terribili, è uno stringersi l’uno all’altro che fu forte anche nei giorni successivi alla sua morte.

A un certo punto della sua vita, Pino Daniele se ne va a Roma. È così difficile essere simboli a Napoli?

Lo era, perché purtroppo Napoli non è sede di una grande industria culturale. I grandi centri di sviluppo artistico, le case discografiche, le case editrici, la Rai, Cinecittà non sono a Napoli e fino a una ventina di anni fa è stato necessario, nel momento in cui si aveva o si voleva avere un minimo di visibilità nazionale, andare altrove. Ora non è più così. Da almeno una quindicina d’anni i napoletani che hanno la fortuna di avere visibilità nazionale possono rimanere a Napoli e proporsi da Napoli, come nel mio caso: non ho mai lasciato la città, sono felice di essere qui, questo non mi impedisce di avere i miei spazi, da intendersi come visibilità culturale, in Italia e all’estero.

Della città Pino Daniele ha cantato gli ultimi, ne ha usato gli stereotipi per confutare, denunciare, dalla ‘tazzulella ’e cafè’ in avanti.

Pino Daniele cantava quello che era il nuovo suono di questa città. Lo fanno oggi i Geolier, i Guè Pequeno, i Liberato. Il suono della città cambia e cambia dal basso, dalla parte popolare, dunque chi è interprete del cambiamento deve cantare quel tipo di musica. In quel che cantava Pino non c’era nulla di superficiale, i testi proponevano una realtà forte di cui lui, come tutti quelli che lo ascoltavano, erano consapevoli. Proporre una realtà edulcorata non avrebbe avuto alcun senso. Dire quello che pensava era la caratteristica principale di Pino, che prenderebbe tranquillamente posizione dal punto di vista politico ancor di più oggi che siamo testimoni di alcune proposte politiche come l’autonomia differenziata, fortemente divisive e discriminatorie. Per fortuna abbiamo organi dello Stato che ancora sono in grado di contrapporvisi.

Un album, o una canzone?

Sono molto legato ad ‘Appocundria’, uno spleen, una situazione di disagio che è tipicamente napoletana e che lui propone perfettamente.

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