Grazie al Caffè Gambrinus della sua Napoli, oggi abbiamo un bancario in meno e un grande giallista in più: venerdì 7 ottobre si racconta a Manno
Era il 2011 e l’ispettore Giuseppe Lojacono non si era ancora scontrato con il Coccodrillo, killer senza scrupoli; Gelsomina Settembre detta ‘Mina’ era al massimo un racconto e Sara Morozzi ancora doveva andare in pensione. Sul palco di un teatro di un borgo del Nord Italia, ospite letterario di un concerto, Maurizio De Giovanni raccontava la Napoli degli anni 30 con tale pathos da ammaliare anche una roccaforte leghista. Raccontava la Napoli del commissario Ricciardi, per la precisione, in una delle sue visioni o ‘Fatto’, come lo chiama lui. Ritroviamo De Giovanni undici anni dopo, a parabola compiuta, quella che da scrittore del momento (il 2011) porta al ‘classico’ (oggi).
Ex dipendente col posto fisso al Banco di Napoli ma con laurea in Lettere classiche, ex nazionale di pallanuoto oggi maestro del poliziesco, De Giovanni – scrittore, sceneggiatore e drammaturgo – si racconterà nella Sala Aragonite di Manno venerdì 7 ottobre alle 20.30 intervistato da Fabrizio Quadranti, nella serata aggiuntiva della rassegna ‘Esplorare il Sogno’, collaborazione tra il Comune e la biblioteca Portaperta che ha già visto a Manno Hans Tuzzi. «Sì, ricorda bene – ci dice – ho lavorato per trent’anni in banca, ma lo sviluppo della mia attività di scrittura ha imposto che io facessi altre scelte, e cioè la scrittura a tempo pieno. E dico ‘per fortuna’, perché la scrittura è una cosa bellissima e un’attività che mi è difficile assimilare al lavoro. È così gratificante, scrivere ti accompagna in modo così unico nella vita che puoi solo ringraziare il cielo di poter fare questo tipo di professione».
Il commissario Ricciardi mangia sfogliatelle al Caffè Gambrinus, lì dove il Maurizio De Giovanni degli esordi vinse un premio cui, indirettamente, si deve la serie d’inchieste di uno dei personaggi più amati del Poliziesco e della televisione italiana…
È vero, il caffè è quello ma non si tratta di un’autocitazione. Il Gambrinus è uno dei luoghi cardine della cultura di Napoli e ha sempre ospitato generazioni d’intellettuali che si scambiavano idee, che mettevano sui tavolini la propria creatività. Il Gambrinus è il luogo in cui D’Annunzio scrisse durante il suo soggiorno napoletano, è il luogo di Salvatore Di Giacomo, di Matilde Serao. Ricciardi e il Gambrinus non sono un tributo a me stesso. Io sono solo stato molto fortunato per avere scritto per la prima volta in un luogo del genere.
Queste, più o meno, dovrebbero essere sue parole: "Ci sono due modi per raccontare Napoli: confutarne gli stereotipi oppure guardarla dalla finestra e scrivere ciò che vedi". Quale Napoli vede Maurizio De Giovanni dalla sua finestra?
Sì, la frase mi appartiene. Dalla mia finestra vedo un luogo universale all’interno del quale, in uno spazio relativamente ristretto e per giunta in un’area a tratti disagiata dal punto di vista economico, si confrontano milioni di persone per dare luogo a molte esternazioni diverse dei sentimenti umani. Questo è il motivo che rende questa città così narrativa. E in questo senso, gli stereotipi hanno sì una radice di verità, ma sono di per sé un’esagerazione, la sclerotizzazione di un pregiudizio e questo è sempre sbagliato.
Nella sua storia, Napoli ha avuto sempre generazioni straordinarie di narratori e il periodo che viviamo è di livello certamente non superiore alla generazione che ci precede, quella dei La Capria, dei De Crescenzo, dei Compagnone, delle Ortese, dei Pomilio, e ancor prima quella dei De Filippo, dei Di Giacomo. Napoli può essere raccontata in ogni modo perché è un universo, una realtà così vasta e complessa che può prestarsi a tutti i tipi di narrazione. È legittimo raccontare ‘Gomorra’ così com’è legittimo raccontare ‘L’amica geniale’ e ‘I Bastardi di Pizzofalcone’.; a Napoli puoi ambientare un romanzo borghese, uno aristocratico, e puoi raccontare il popolo inteso nel senso più duro e forte: ‘Tre operai’ di Carlo Bernari è stato scritto a Napoli, così come altre opere di natura più familiare e popolare.
Lino Guanciale è il commissario Ricciardi
Il commissario Ricciardi, i poliziotti ‘imperfetti’ di Pizzofalcone, l’ex poliziotta Sara, l’assistente sociale Mina, un estendersi di figure che, più che un’evoluzione del primogenito, paiono un tentativo di non rimanerne imprigionato…
Io pratico il poliziesco, genere al quale si può far riferimento con precisione parlando di me, con Ricciardi e i ‘Bastardi’ in testa. Quelli di Sara non sono polizieschi, sono più spy story alla Le Carré; e Mina Settembre è più un romanzo sociale, ancorché raccontato in tono più lieve e umoristico. Ritengo di far parte di quella categoria di scrittori che sperimentano, che cercano di scrivere storie diverse, perché replicare lo stesso modello è inutile. Certo, se io volessi raccontare Ricciardi potrei farlo, e sarebbe finanche più semplice, ma le variazioni sono più interessanti. È come avere vestiti diversi in uno stesso guardaroba. Si cerca sempre di essere abbastanza originali, altrimenti significherebbe rifarsi a modelli e i modelli sono sempre migliori delle imitazioni.
Pressoché tutti i protagonisti dei suoi romanzi lo sono di fiction televisive: come spiega questa attenzione della televisione nei suoi confronti?
Io scrivo romanzi, m’interessa quello. Nelle serie televisive intervengo con livelli diversi d’impegno ma si tratta di un linguaggio diverso, che parla a un altro pubblico. I lettori possono essere spettatori, ma la stragrande maggioranza degli spettatori non sono lettori. Un libro fortunato come i miei può vendere 150-200mila copie, gli spettatori di una fiction televisiva sono tra i 5 e i 6 milioni, si tratta di target e linguaggio completamente diversi. La tv sente la necessità di privilegiare le parti sentimentali rispetto a quelle più squisitamente narrative, ha bisogno di protagonisti riconoscibili cui gli spettatori si possano affezionare, deve richiamare ogni volta ciò che è successo in precedenza altrimenti gli spettatori se ne dimenticano.
Tecnicamente, qual è il suo intervento sulle serie televisive che la riguardano?
Intervengo sulle sceneggiature e sul soggetto di serie, così è stato per Ricciardi e per i Bastardi. Su Mina Settembre invece, date le differenze radicali rispetto alla storia, viste le esigenze espresse dalla televisione rispetto a ciò che io ero incline a scrivere, io non ci sono se non come ispiratore, all’inizio della serie. Per quel che riguarda Ricciardi, sono tutti quanti i miei libri, la derivazione è più diretta. Per i Bastardi, le puntate sono più numerose dei romanzi, cosa per la quale il mio intervento è meno presente.
Maurizio De Giovanni, facebook
La fede calcistica campeggia sulla sua pagina social. Non è così frequente da vedersi l’intellettuale che scende nell’arena dell’opinionismo calcistico come fa lei…
Sono dichiaratamente un gran tifoso. Non sono un giornalista, non sono tenuto all’obiettività. E in quanto tifoso sono umorale, alterno momenti di esaltazione ad altri di depressione. Credo non sia un caso che Napoli è l’unica grande città con una squadra sola, c’è una forte corrispondenza identitaria, cosa di cui sono consapevole. E come tifoso del Napoli sono tifoso di Napoli, e me ne vanto. Non sono a scendere io nell’arena, mi chiamano e mi piace farlo. Non è nulla di più che l’essere chiamato a dare un’opinione su ciò che sta più a cuore, per questo non mi sottraggo mai.
Per chiudere: "Non è colpa mia se ho vinto, il merito va a Napoli", ha dichiarato in risposta ai due Nastri d’Argento per la scrittura ricevuti per Mina Settembre e I Bastardi di Pizzofalcone, ‘scaricando’ tutto sulla città, che con ‘Nostalgia’ di Mario Martone quest’anno sarà l’Italia agli Oscar…
Napoli è un luogo di creatività, offre molti registri narrativi, che concorra a un premio del genere è cosa abbastanza naturale. La mia città è andata agli Oscar con De Sica, con Sofia Loren, non è una novità, penso al grande Sorrentino, e ora Mario Martone, autori fantastici come Leonardo Di Costanzo, Edoardo De Angelis, vecchi e nuovi registi, tutti grandi narratori per immagini di una città che si racconta da sola.
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