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Per il mondo è Avicii, ma il mio nome è Tim

Narrata con misura, ‘I’m Tim’ è la storia del dj e producer svedese morto all’età di 28 anni, tra i film più visti sulla piattaforma dalla grande N rossa

Avicii, pseudonimo di Tim Bergling (Stoccolma, 8 settembre 1989 – Mascate, Oman, 20 aprile 2018)
(Keystone)
4 gennaio 2025
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“Musica senza tempo, è questo che sto cercando di fare”. Con ampia documentazione video che viene dai suoi archivi privati e da quelli degli amici (a partire dall’ecografia fino agli ultimi giorni in studio), ‘Avicii - I’m Tim’ racconta del breve transito terreno di Tim Bergling in arte Avicii, dj, compositore e producer svedese che un paio di cose senza tempo le ha fatte per davvero prima di spegnere per sempre il suo laptop all’età di 28 anni. Il film di Henrick Burman è tra i più visti di Netflix in questi giorni, forte della popolarità mai sopita del protagonista e dell’Edm (Electronic dance music), genere che lo svedese ha rimodellato e per il quale gli viene riconosciuto lo status di rivoluzionario.

Bimbo insicuro passato dall’essere “una specie di clown di classe” a “uno gentile con tutti” nel giro di un’estate, Tim Bergling non è abbastanza motivato per suonare una vera chitarra ma è sicuro di voler fare qualcosa di creativo nella vita. È un teenager di Stoccolma quando scopre Fl Studio, workstation digitale con la quale inizia a fare musica senza suonare uno strumento preciso, ma scegliendo tra i suoni messi a disposizione dal software. Produce musica house con l’amico Filip ‘Philgood’ Åkesson, la diffonde sui blog e il producer e talent scout Arash ‘Ash’ Pournouri ne riconosce le potenzialità. Il nome d’arte doveva essere Avici (in sanscrito “senza onde”, rappresentazione buddista del livello più basso dell’inferno, dice l’artista) ma ai tempi di MySpace qualcun altro si era già preso quel nome. Da cui la doppia i.

Ad Avicii basterebbe pubblicare qualche brano e imparare a fare il dj alle feste degli amici, ma Ash gli dice che diventerà il dj più famoso al mondo. Non sono panzane: giusto il tempo di remixare ‘Sweet Dreams (Are Made of This)’ degli Eurythmics e di imparare a “sentire la pista” e il 18enne che non era mai uscito dal quartiere di Östermalm parte in tour. Nel 2011, sulla scia di ‘Seek Bromance’, brano dal discreto successo in Europa, si esibisce all’Ultra Music Festival di Miami: il New York Post scrive di lui e la premonizione di Ash, ora suo manager, è compiuta. Di lì a poco Avicii scriverà ‘Levels’, brano simbolo degli anni Dieci del secolo Duemila, scoprirà il successo planetario ma anche il potere dell’alcol che gli scioglie i movimenti sul palco. E scoprirà i ritmi schizofrenici dei tour da sei concerti a settimana.


Keystone
Nel 2016 al Pildammsparken di Malmoe

That’s Country

Il primo album di Avicii s’intitola ‘True’, è del 2013, è prodotto insieme al guru Nile Rodgers (Chic) ed è portatore di un desiderio preciso: unire house ed electro-dance a elementi del country, musica che arriva dal bambino Tim. “Sono melodie che risalgono a centinaia di anni fa, con forme e modalità diverse”. Così si spiegano ‘Hey Brother’, affidata alla voce di Dan Tyminski, membro degli Union Station di Alison Krauss, signora del bluegrass, e ‘Wake Me Up’, inno dance ispirato dal bluegrass stesso e cantato da Aloe Blacc. Per la première di ‘True’, Avicii sceglie l’Ultra Miami che lo aveva lanciato, tornandovi da artista principale per spiazzare tutti coloro i quali faticano a sentir dire da un dj “stasera suono”: concede alla piazza la sola ‘Levels’, poi porta i cantanti di ‘True’ sul palco, accompagnati da una band che suona dal vivo. La differenza di impatto sonoro tra le macchine e i musicisti in carne e ossa è dieci a zero, il risultato è un disastro, la lapidazione social è certa. Gli insulti si placano solo quando, ore più tardi, Ash carica il concerto su SoundCloud e qualcuno si accorge della potenza di quei brani. ‘Wake Me Up’ esplode nel Regno Unito e così fa ‘Hey Brother’.

Nel film, Tyminski dice che ‘Hey Brother’ è la cosa più grande e imprevedibile nella quale è stato coinvolto e forse, a questo punto della carriera, tutta la cosa nel suo insieme è già troppo grande anche per Avicii.

Anima fragile

“Ho avuto un’infanzia fantastica. Ho i migliori genitori del mondo, che mi hanno sostenuto in tutto, non ho mai dovuto chiedere niente, non ho mai dovuto avere paura di niente”. ‘I’m Tim’ si apre così, con il bilancio di un giovane uomo che forse ancora non era diventato “una fragile anima artistica alla ricerca di risposte a domande esistenziali”, come la famiglia l’avrebbe ricordato dopo la sua morte, parlando di suicidio usando parole diverse da quella. Dal comunicato stampa dell’aprile 2018: “Era un perfezionista estremo che lavorava e viaggiava a un ritmo talmente alto da avere uno stress enorme. Quando ha smesso di fare tour voleva trovare un equilibrio per essere felice e fare la cosa che più amava: la musica”. E ancora: “Ha davvero lottato con i pensieri sul significato di vita, felicità. Non poteva più andare avanti, voleva trovare la pace. Tim non era fatto per quella macchina da business in cui si è trovato”.

Con compostezza tipicamente nordica, autorizzato da papà e mamma che dicono anch’essi la loro, il documentario non si addentra mai nei dettagli della morte di Tim, a volte molto cruenti quando qualcuno decide di togliersi la vita. E se la misura è un bene, ‘I’m Tim’ manca forse di una parola in più sulla salute mentale che ha tradito il bambino felice. Ci si ferma quindi all’alcol, alla dipendenza dagli antidolorifici, alla discesa negli inferi tipica della popstar schiacciata dal peso del successo, allo struggimento dato dalle classifiche, dalle statistiche, dalla regola per la quale hai solo 5 secondi per fidelizzare l’ascoltatore dopodiché la tua canzone, almeno agli occhi dei contabili della musica, non serve più a nulla, in un mestiere che è sì ridotto ai minimi termini ma che è ancora legato a un lampo di genio o a una strada presa contromano. È di questo che si danna Avicii nelle ultime immagini del film, dopo tutto il buono detto su di lui da David Guetta, da Chris Martin, dei Coldplay, che chiese i suoi servigi per ‘A Sky Full of Stars’ (“Non aveva bisogno di strumenti, il suo strumento era il laptop”) e tutti gli altri.

Serenità

‘I’m Tim’ porta con sé una specie di allegato intitolato ‘My Last Show’, una mezz’ora di film a sé con l’ultimo suo concerto, annunciato in una lettera ai fan insieme al ritiro definitivo dalle scene. Era il 28 agosto del 2016 all’Ushuaïa Ibiza e il regista è sempre Burman. Al di là del carnaio dei club e delle arene in delirio su ‘Levels’ e ‘Wake Me Up’, due canzoni accompagnano il film e in qualche modo segnano l’ascesa e la caduta di Avicii: una è ‘I Got a Name’ (più o meno “mi sono fatto un nome”) ed è di Jim Croce, anch’egli morto giovane; l’altra è del dj svedese e s’intitola ‘Peace of Mind’. Entrambe fanno parte di un album uscito postumo, che per Avicii è ‘Tim’. E in ‘Peace of Mind’ la richiesta di Tim è una sola: “Posso avere un poco di serenità?”.


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‘So wake me up when it’s all over’