laR+ Venezia 81

Un Festival che diventa ombra

Un grande Takeshi Kitano, il capolavoro ‘Qing Chun: Gui’ di Bing Wang e un’occasione persa per ricordare Luigi Comencini (aspettando i Leoni)

Da ‘Qing Chun: Gui’ (Youth: Homecoming) di Bing Wang
7 settembre 2024
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Tutti i Festival arrivati agli ultimi giorni hanno il vantaggio di diventare ombre, per proiezioni disertate come qui a Venezia, per idee non lasciate come purtroppo, anche qui, a Venezia. Certo è l’ultimo posto, dove un mito come Takeshi Kitano trova la possibilità onorevole di morire. Succede nel suo non credibile ‘Broken Rage’, in cui gioca con lo spettatore ma soprattutto con se stesso, con l’impossibilità di esistere al di fuori del tempo che ti è dato da vivere. E clamorosa è l’idea di un pubblico convinto di avere di fronte un super eroe alla maniera hollywoodiana, mentre in realtà l’unica verità viene espressa da un vinto al quale nulla interessa l’esser vivo.

Grande Takeshi Kitano in questa sua ultima meditazione sulla vita, cosciente di non essere chiamato più a intervenire su di essa. Facile è definire questo film un divertissement, mentre in realtà il regista e attore ci invita a riflettere sulla nostra fragilità.

Da Locarno in Laguna

In Concorso gli ultimi due film, ‘Kjærlighet’ (Love) di Dag Johan Haugerude e il capolavoro ‘Qing Chun: Gui’ (Youth: Homecoming) di Bing Wang. Questo è un film importante, nato a Cannes, passato da Locarno, che ora ha trovato il suo termine sulla Laguna, l’unico posto in cui frenare un destino ineluttabile, tremendo nel suo annullare ogni possibilità di sopravvivenza e futuro. I nostri eroi sono cresciuti, vittime dell’illusione dell’industrialismo capitalista, convinti che tutto sia loro dovuto. Ma cresciuti si trovano ad affrontare il dare un futuro a quelle donne che mai sono state riconosciute come compagne, ma sempre come riproduttrici. Nel film di Bing Wang troviamo la denuncia di un paese come la Cina, di cui oggi non percepiamo la differenza dal nostro vivere.

Ed è un tema, quello del sesso violento, che appare in ‘Kjærlighet’, seconda parte della trilogia ‘Drømmer (Sex Drømmer Kjærlighet)’ di Dag Johan Haugerud. Qui incontriamo Marianne, una dottoressa pragmatica, che su un traghetto fa conoscenza di Tor, un infermiere compassionevole, lì in cerca di incontri con sconosciuti; i due stanno entrambi evitando le relazioni convenzionali, legano e Tor le racconta le sue esperienze clandestine. Incuriosita, Marianne scopre la difficoltà di essere la donna di un divorziato; si ritira, mentre il mondo intorno cresce senza la preoccupazione di avere amore, con la consapevolezza di dare amore.

Nemmeno noi lo abbiamo approvato

Tra gli ultimi film è passato senza lode quello di Francesca Comencini che ricorda il padre Luigi ne ‘Il tempo che ci vuole’. La regista afferma: «Non lo avrebbe approvato, ma lo sento vicino a me». Noi, vedendo il film, abbiamo pensato alla inevitabile differenza che esiste tra lei e il padre, un uomo che ha fatto i conti con il fascismo e la resistenza e le stragi di Piazza Fontana e dell’Italicus.

Francesca Comencini resta nella superficie, mai affonda in dire cinematografico degno di essere cinema. Inutile come ‘Pisni zemli, shcho povilno horyt’ (Songs of slow burning earth) di Olha Zhurba, una celebrazione del canto ucraino che ha tra i pochi meriti quello di ricordarci un capolavoro come ‘Oh Uomo’ di Jervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, e di farci riflettere sulla tragedia dei non morti in un conflitto, ma dei feriti gravi, quelli di cui mai nessuno parla abbastanza, che perdono gli arti, il naso, gli occhi, quelli che hanno fatto la guerra, non noi che la raccontiamo.

Ieri una grande attrice americana, Kathleen Chalfant, una delle più grandi di Broadway, ha festeggiato il premio meno atteso, un Bisato d’Oro da riportare in teatro la prossima stagione. E ora è il tempo dei Leoni. Tutto il Lido freme, i fotografi sono pronti; qui tifano tutti Italia, i pochi stranieri pensano a Walter Salles e al suo ‘Ainda esou aqui’, che resterà di sicuro uno dei film più amati di un Festival incapace di raccontare una storia, ma solo di raccogliere lacerti di tante storie.