Le quattro ore di ‘Qing chun (Ku)’, i lavoratori cinesi visti dall'indipendente Wang Bing, poi la denuncia di ‘Fogo do Vento’ di Marta Mateus
Torna in Concorso a Locarno, dove nel 2017 con ‘Mrs. Fang’ aveva meritatamente vinto il Pardo D’Oro, uno dei più grandi documentaristi viventi: l’indipendente cinese Wang Bing. In questo 2024 ha portato un’opera poderosa e necessaria: ‘Qing chun (Ku)’ (Giovinezza - Tempi duri), seconda parte di una trilogia sul lavoro giovanile in Cina iniziata nel 2023 in Concorso a Cannes con ‘Giovinezza (La Primavera)’ e che si chiuderà in Concorso a fine mese nella prossima Mostra del Cinema di Venezia, con il titolo ‘Giovinezza (ritorno a casa)’. Questo per dire della complessità del profondo lavoro di cinema civile condotto da Wang Bing, un lavoro che di certo non piace alle autorità cinesi per come mette in evidenza la drammatica situazione dei giovani lavoratori in quel grande Paese, ma che altrettanto di certo non piacerebbe alle autorità europee perché le drammatiche condizioni senza futuro in cui vediamo vivere una parte della gioventù cinese è la stessa che vivono giovani e migranti nei nostri paesi.
Diverse persone hanno preso paura delle quasi quattro ore di proiezione del film, e purtroppo non c’è un minuto che si possa tagliare; poi ci si dimentica delle durate degli ‘Heimat’ di Edgar Reitz, circa 60 ore, e restando nel mondo del lavoro degli umili, di quanto duravano ‘L'albero degli zoccoli’ di Ermanno Olmi (187’), Palma d’oro a Cannes, e sempre di Olmi ‘Cammina Cammina’ (171’) e, restando sul documentario indipendente, il leggendario ‘Anna’ di Alberto Grifi, ch dura 225 minuti. Non è quindi la durata il problema, ma forse il fastidio per la sincerità con cui Wang Bing mostra la classe operaia, i lavoratori, non sono quelli inamidati che siamo abituati a vedere: sono sporchi del loro lavoro, non hanno dialoghi scritti, parlano, gesticolano, lavorano nelle fabbriche di vestiti e hai paura che quegli aghi che corrono disperati a cucire pantaloni, giubbotti, magliette con i personaggi disneyani, chiedano il sangue di quelle giovani dita. Spiega il regista: “I giovani cinesi lavorano duramente per vivere. I salari sono bassissimi, le giornate interminabili e il tempo per riposarsi quasi nullo. La società cinese ha ridotto il suo quotidiano al lavoro. Guadagnare denaro è diventato l'unico orizzonte”. Sono parole che fanno male perché è la situazione di tutto il mondo, è il trionfo del capitalismo finanziario, la fine della società civile.
Wang Bing non mostra solo il lavoro pesante e sottopagato, ma anche la laidità di padroni che rubano i soldi agli operai, che fuggono con il denaro e abbandonano al fallimento i laboratori, lasciando per strada i dipendenti. È un mondo di violenza dove i magazzinieri picchiano i fornitori, dove la polizia non interviene contro chi, scappando, truffa doppiamente chi lavora negandogli il posto di lavoro, ma contro chi protesta per la giustizia. ‘Qing chun (Ku)’ è un film crudele perché urla verità: alla fine di questa seconda parte vediamo alcuni di loro che erano impegnati nei laboratori tessili di Zhili, che tornano nelle regioni da cui erano partiti, alcuni dopo trenta ore di viaggio, e il loro ritorno commuove per l’accoglienza che hanno dalle loro famiglie amorevoli. Poesia politica, cinema che non imbroglia, ma inquieta: il regista mostra la realtà o fa politica, si chiede Wang Bing, e lo sa bene: raccontare la realtà è fare politica, è ritornare bambini, è dire che il re è nudo.
Secondo film in Concorso, l’interessante pellicola portoghese ‘Fogo do Vento’ di Marta Mateus, un film che è cinema, finalmente con le immagini bene illuminate, con i visi sempre in luce (perché i volti sono espressivi e vanno illuminati), e con uno stile che rimanda chiaramente alla lezione di Jean-Marie Straub, ovvero l’idea di un cinema anti-spettacolare, con lo straniamento della recitazione esasperato dall'uso di attori non professionisti in costume. Marta Mateus con rigore ed emozione esplora la propria memoria e quella di una piccola comunità rurale, costruisce attraverso ricomposti lacerti il racconto di un oggi cui necessitano le radici per poter guardare a un futuro. Parte dal lavoro della terra ed la vite e la vendemmia, ed è la bottiglia di vino rosso che si spande e una giovane vendemmiatrice che si ferisce con la forbice che usa per staccare i grappoli, e il sangue si sparge a gocce sulla terra attirando un toro violento che uccide un contadino, mentre tutti scappano sui rami protesi di alberi secolari. Il toro è il male che fa paura, come il ricordo del nonno mai tornato dalla Prima guerra mondiale, e altre memorie vanno a quelli che hanno perso padri e fratelli nelle guerre coloniali in Angola e Mozambico. Il dolore di chi non torna è mitigato dalla possibilità delle famiglie povere di poter mangiare con la ricompensa statale per chi partiva militare. Film di grande forza, di denuncia di una dittatura fascista che ha oppresso quello e altri popoli, ma film anche di speranza per un mondo senza guerre, capace di guardare con speranza il cielo. E mentre lo guardavamo, abbiamo ripensato al ‘Grande Dittatore’ di Chaplin: anche là, nell’ultima scena, stavano vendemmiando, e Chaplin vestito da Hitler finiva il suo discorso, uno dei massimi inviti alla pace, con l’invito ad Anna ad alzare gli occhi e guardare il cielo.