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Non sono giochi senza frontiere

Proiettato ‘Trieste è bella di notte’, documentario che mostra la disperazione e la tenacia dei migranti che sognano l'Europa

Arrivare e guardarsi indietro
(@FFDUL)
25 ottobre 2023
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Sembra quasi uno scherzo, un'ironia crudele, una di quelle sparate con cui l'estrema destra vorrebbe sminuire il problema, eppure ‘the game’, il gioco, è il nome con cui i migranti che percorrono la rotta balcanica definiscono il loro tentativo di attraversare le frontiere per arrivare in Europa. I miserabili espedienti giuridici con cui governi di tutti i colori tentano di ostacolarli sono, in fondo, un test per spostare i confini del diritto in una zona d'ombra che ridisegni i rapporti tra Stato e persona, sbilanciandoli in senso autoritario e repressivo: è con questa avvertenza che Stefano Collizzoli, regista insieme a Matteo Calore e Andrea Segre di ‘Trieste è bella di notte’ (proiettato mercoledì 25 ottobre al Cinema Corso nell'ambito del Film Festival Diritti Umani di Lugano), prepara una platea di liceali alla visione di un documentario che impressiona e fa riflettere. Trieste, al confine italiano con la Slovenia, per molti migranti è la meta finale di un viaggio che, per chi ha il passaporto sbagliato, è impossibile compiere legalmente. Le testimonianze di giovani afghani in fuga dalla miseria, dalla mancanza di prospettive, dalle prevaricazioni del bestiale regime talebano disegnano uno scenario in cui, anche se noi ci crediamo assolti, siamo lo stesso coinvolti.

Sopraffazioni e torture

Chi ha raggiunto la meta ha gli occhi pieni di futuro: "Quando arrivi, ti dimentichi di tutto", e tutto vuol dire tante cose: la disperazione che spinge a fuggire, anche se la vera pace interiore si prova solo nella propria casa; la ferocia dei trafficanti di esseri umani e quella dei gendarmi in qualche Stato europeo di passaggio; la paura che si fa più forte a ogni passo, a ogni giornata trascorsa senza cibo, a ogni preghiera ("Salvaci dall'esercito, dalla polizia e dagli animali"); i documenti in lingue sconosciute, che si viene obbligati a firmare, con la connivenza dei mediatori culturali e senza la garanzia di un’assistenza legale. E tutte le speranze improvvisamente riposte nell'indifferente funzionario di frontiera, che sequestra gli zaini con i pochi averi, il denaro, i cellulari, i lacci delle scarpe, per la gioia di un indefinibile ministro italiano che in televisione rilevava indignato che "questi arrivano con il telefonino, le scarpe, la catenina, l'orologino". E le torture inflitte dai tutori della legge e dell'ordine a gente che, dopo aver subito bruciature sui piedi e sulle gambe, viene costretta a spogliarsi e ad attraversare torrenti di acqua gelata. Chi non ce l'ha fatta, invece, è stato via via rimandato indietro, in una umiliante sequenza di respingimenti, come un pacco postale da rispedire al mittente, e occupa case abbandonate in Bosnia in attesa che passi l'inverno prima di ritentare la sorte. Nell'attesa, siede con la testa china, come un pensatore di Rodin, a contemplare il nulla della propria vita e l'ipocrisia delle cristianissime democrazie che lo rifiutano. Colpiscono i primi piani di questi disgraziati che elemosinano un documento che li salvaguardi, un giudice che li protegga applicando le convenzioni internazionali, un appiglio qualsiasi in tanta disumanità: volti come carte geografiche, troppo scuri per non spaventare le persone perbene. E colpisce anche la freddezza notarile esibita da politici e prefetti nello spiegare, ai parlamentari o ai registi che li interrogano, che tutto questo è perfettamente normale e giustificabile.

Le domande dei ragazzi

Al termine della proiezione, apprendiamo di avere visto solo una piccola parte del tutto, sia perché la rotta balcanica non esaurisce le rotte migratorie, sia perché ci sono anche giovani donne a rischiare la vita in questo ‘gioco’, pagando il viaggio con il loro corpo. I registi si sono limitati agli uomini perché un residuo di dignità impedisce alle autorità statali di respingere i soggetti vulnerabili, donne e bambini. E infatti tra il pubblico siedono dei ragazzini afghani, che hanno rivissuto nelle immagini del documentario la loro odissea: una ‘passeggiata’, la definiscono nel loro italiano ancora incerto. Il film ha un messaggio? Vuole spingerci a fare qualcosa? Lo domandano gli studenti, animando un dibattito che appassiona gli spettatori rimasti (circa la metà). Ai registi premeva mostrare che questo viaggio non ha senso perché non ha senso limitare ad alcuni passaporti il diritto di spostarsi liberamente. Il resto verrà dalla sensibilità degli spettatori. Già, ma come rivolgersi ai cittadini che hanno creduto agli slogan elettorali delle barriere navali e ad altre trovate tanto fumettistiche quanto irrealizzabili, ma sufficienti a fare breccia nella pancia della maggioranza? Arroccarsi nelle proprie posizioni serve solo a polarizzare lo scontro, risponde Collizzoli, e a giudicare dall'alto chi la pensi diversamente: ergersi a maestrini non è la strategia migliore. Gli studenti apprezzano, ringraziano, insistono, vogliono capire, non si spiegano la mancanza di un'autorità sovranazionale che bacchetti e punisca gli Stati che operano al di fuori del diritto internazionale: se votassero, direbbero no a una Svizzera da dieci milioni di abitanti?