Toccata con mano, la realtà della scena aperta dei migranti bloccati al confine di Ventimiglia fa luce sulle ipocrisie dell'Unione europea
«Ci provano una, due, cinque, dieci volte, e alla fine riescono a passare». È tutta nelle parole di un volontario operativo a Ventimiglia, la “logica” della disordinata permanenza di centinaia di migranti nella cittadina ligure, scena aperta del fenomeno poiché “collo di bottiglia” fra l’approdo in Italia, spesso a Lampedusa, e l’uscita verso la Francia e l’Europa. Una logica confermata dal fatto che molte delle persone trattate in prima istanza da Caritas, Médecins sans Frontières o da altri enti di pubblica utilità a un certo punto non danno più notizie di sé. Significa, appunto, che in qualche modo la strettoia di confine è stata superata nonostante il ferreo controllo operato dagli agenti della Police aux Frontières, presenti fisicamente, o con droni e velivoli, in tutti i punti di passaggio via terra, via strada e via ferrovia per confermare, ormai dal 2015, la sempre più estesa eccezione al trattato di Schengen.
‘laRegione’ ha visitato i luoghi, parlato con gli immigrati, seguito i loro passi nei tentativi di espatrio e ascoltato le considerazioni di chi, ogni giorno, con ammirevole dedizione presta la propria opera per dare rifugio, ristoro e scampoli di aleatoria speranza a quelli che genericamente chiamiamo “i disperati della Terra”. Non considerando, in questa definizione usurata e stantìa, l’intero spettro delle capacità, delle fragilità e dei sentimenti che è proprio di chi dorme all’aperto, mangia in modo irregolare, deve integrarsi in clan già formati, con persone di diverse nazionalità, che parlano lingue sconosciute e pregano un altro Dio.
Questo, oltretutto, al netto degli orrori dei cosiddetti “viaggi della speranza” fra deserto e mare, costellati da soprusi e violenze di ogni tipo, con pochissime concrete prospettive di successo. Ma anche della totale assenza dello Stato, italiano e francese, capace solo, o in maniera nettamente preponderante, di rispondere con l’ostilità laddove servirebbero invece carità e accoglienza.
Ecco allora che la disperazione si riempie di coraggio, perseveranza, inventiva, pazienza e forza di volontà; ma anche, e purtroppo, di paura, degrado, umiliazione, arrendevolezza e rifiuto. O, ancora, avidità e mancanza di scrupoli, laddove il migrante diventa stanziale e approfittatore: non certo o non solo del poco che il territorio è in grado di offrirgli, ma soprattutto del suo proprio consimile in transito, cui vende false speranze, aprendo invece infidi circoli viziosi.
È solo in un contesto del genere, che il nostro essere europei, e svizzeri, e ticinesi, assume senso compiuto. Perché ci permette di capire, toccando con mano, quanto vuote, egoiste e ipocrite siano le parole di chi sulla pelle del diverso costruisce mirabolanti successi elettorali cementati con l’odio. Schengen è diventato in Europa un concetto ormai superato; l’Udc spadroneggia in Svizzera e domina anche in Ticino, che già ogni domenica sperimenta vergognose derive certificate da un deputato specializzato in dileggio, che ci rappresenta a Berna. Il razzismo, da tempo, non fa più notizia.
Sul sentiero a cavallo del confine, verso il “passo della morte”, abbiamo trovato dei vestiti ricoperti di terra. Alcuni erano di bambini. Per poterli toccare, ci siamo inginocchiati.