La regista svizzera Nina Stefanka presenta il suo documentario sulla quotidianità, a tratti surreale, di alcuni migranti del Mali in Italia
Siamo abituati a vederli come folla senza nome e senza volto nei barconi o mentre attraversano, a piedi, qualche frontiera dell’Est. O ancora nei centri di accoglienza, spesso nelle cronache di sfruttamento della manodopera irregolare o, al contrario, di qualche progetto di integrazione.
Nina Stefanka, nel suo documentario ‘Miraggio’, prova un’altra via, quella della quotidianità di alcuni migranti qualsiasi. «Non sono geni, non sono eroi, non hanno fatto la rivoluzione» ci spiega la regista zurighese il cui documentario, prodotto da Cinédokké insieme a Rsi, dopo il passaggio in alcuni festival tra cui Zurigo e Soletta arriva adesso nelle sale ticinesi – sabato 11 dicembre, alle 20.30 al Lux di Massagno ci sarà una proiezione speciale alla presenza della regista.
Abbiamo Issa, il cui viaggio verso l’Europa è durato dieci anni e adesso è un senzatetto a Roma; Drissa e Sekou, in attesa di un permesso di soggiorno seguendo leggi e regolamenti che cambiano in continuazione. E poi ancora Bubu e Alassane: la telecamera, con il tipico approccio di questo tipo di documentari, li segue nella loro vita di tutti i giorni, di persone comuni «che potrebbero essere te o me o chiunque altro» prosegue Stefanka. Questo per «dare voce a delle persone che semplicemente vivono», evitando «di fare una vittimizzazione dei protagonisti», ma solo mostrando che cosa significa, concretamente, lasciarsi tutto indietro, crearsi una nuova identità, passare da un Paese all’altro, da un sistema all’altro.
È il momento in cui si creano una nuova vita? «È più il tentativo di costruirsi una nuova vita» ci corregge la regista, alludendo alle difficoltà per ottenere una qualche forma di legalità che permetta di muoversi e lavorare. «Non si sono ancora costruiti una nuova vita e per anni si trovano in questo stato un po’ perso, sospeso: anni di attesa che sono molto duri, anche dal punto di vista psicologico e fisico».
Come sono stati coinvolti i protagonisti del film? «È stata una questione di fiducia e di lingua: mi sono avvicinata a loro attraverso alcuni contatti e, grazie al fatto di aver avuto tempo a disposizione per spiegare il mio progetto, siamo riusciti a coinvolgerli». Un ruolo importante lo hanno avuto «i due traduttori: uno purtroppo è morto per il Covid, mentre l’altra è diventata un’amica con cui si è creata una grande complicità». I protagonisti vengono tutti dal Mali ma, ci spiega la regista, «è stata una coincidenza dovuta a come li abbiamo avvicinati. Del resto non volevamo comunque fare un quadro complessivo con migranti provenienti da vari Paesi africani, ma raccontare una storia. E la situazione non cambia molto, che si venga dal Mali, dall’Eritrea o da un altro Paese ancora…».
Il documentario si intitola ‘Miraggio’: perché questo titolo? «Si riferisce a quella che era la loro situazione prima e adesso che sono in Europa, alla speranza che li spinge a intraprendere il viaggio, speranza e forse anche illusione perché più uno sembra avvicinarsi a quello che spera, e più la meta è lontana». Qui la regista ricorda quanto detto da uno dei protagonisti, partito per raggiungere l’Italia anche se un suo amico, rientrato in Mali, gli diceva di lasciare perdere perché è una grande illusione. «In Mali hanno tutti un telefonino e a questo miraggio contribuiscono certo anche i migranti arrivati che mandano immagini belle, magari davanti a una grande macchina, oppure dicono alla mamma che stanno bene e che hanno un tetto sopra la testa… non si possono permettere di distruggere questa illusione, perché le aspettative sono altissime tra chi è rimasto a casa».
‘Miraggio’ non analizza i flussi migratori, non offre spiegazioni e non indica soluzioni, ma racconta una storia. «Forse questo lascia il pubblico un po’ perplesso, ma è il mio modo di contribuire alla discussione: avrei potuto presentare una soluzione come una collaborazione internazionale per migliorare le condizioni di vita in Africa, ma ho voluto raccontare queste vite, mostrare il vuoto in cui queste persone si muovono».