Nella performance ‘Save the last dance for me’ del coreografo Alessandro Sciarroni, anteprima alla Festa danzante, rivive il ballo bolognese del Novecento
Si chiama Polka chinata. In origine è eseguita da una coppia di uomini ed è una forma di corteggiamento. Se non ne avete mai sentito parlare, è forse anche perché le persone che la praticavano, a un certo punto, si contavano sulle dita di una mano. Letteralmente. Nata all’inizio del secolo scorso a Bologna, aveva smesso di essere tramandata dopo la Seconda guerra mondiale fino quasi a scomparire. Se non è andata perduta il merito va a Giancarlo Stagni, maestro di balli di sala che grazie alla scoperta di video di repertorio risalenti agli anni Sessanta, ha ridato vita a questa tradizione popolare.
Sui passi del ballo bolognese dei primi del Novecento danzeranno Gianmaria Borzillo e Giovanfrancesco Giannini in ‘Save the last dance for me’, performance della compagnia del coreografo Alessandro Sciarroni in collaborazione con il Lac di Lugano. Lo spettacolo (sabato 29 aprile, ex Asilo Ciani Lugano ore 19.30), nella Giornata internazionale della danza, farà da anteprima alla Festa danzante dal 9 al 14 maggio in oltre trenta città svizzere (programma del 29 aprile e degli eventi della Festa danzante in Ticino su www.festadanzante.ch/ticino).
Alessandro Sciarroni, cosa ha trovato di interessante in questo ballo?
Oltre a essere esteticamente bellissimo, trovo particolarmente interessante la sua storia. È nato in un’epoca in cui i mondi maschile e femminile, prima del matrimonio, erano assai separati e difficilmente ragazzi e ragazze avevano modo di trovarsi assieme. Gli uomini si cimentavano in questa danza, fisicamente impegnativa, quasi acrobatica, per poi presentarla durante le feste a tutta la comunità e quindi anche alle donne. È in questo senso che la Polka chinata è un ballo di corteggiamento: per gli uomini era un modo di mostrare le proprie capacità e abilità.
Negli anni l’aspetto del corteggiamento era poi andato vieppiù perdendosi e questa Polka è diventata una danza da competizione. Uscita dalle feste, veniva praticata sotto i portici di Bologna con una dimensione quasi sportiva, con i partecipanti a fare a sfidarsi a chi durava più a lungo o arrivava più lontano vorticando. Fino a quando ha smesso di essere tramandata.
In ‘Save the last dance for me’, pur dando una nostra versione contemporanea, abbiamo voluto mantenere la tradizione facendo ballare due uomini.
Cosa c’è invece di attuale e moderno nel suo modo di proporre questo ballo?
Normalmente la Polka chinata durava il tempo di un brano musicale, due minuti, due minuti e trenta. Noi l’abbiamo portata a venti minuti, ciò che lo rende un ballo estremamente faticoso. Prolungando così tanto, lascia che affiorino altri aspetti della danza che nella versione originale forse sarebbero rimasti nascosti. ‘Save the last dance for me’ parla di insistenza, di durata, di resistenza; pone l’accento anche sull’affidarsi all’altro, perché quando i ballerini girano vorticosamente, si devono fidare l’uno dell’altro. Come sempre, abbiamo inoltre cercato di trattare la storia con rispetto: il nostro non è un lavoro sulla relazione tra due uomini; ma è anche vero che ponendo così tanto l’accento sull’insistenza e la durata, capita spesso che gli spettatori possano vedere la storia di un’intimità.
Oltre a quelle derivanti dalla danza, nei suoi lavori usa tecniche e pratiche di altre discipline come il circo e lo sport. Cosa cerca in settori tanto diversi?
Mi piace mettermi alla prova all’interno di pratiche che non conosco, ma che dal punto di vista intuitivo in qualche maniera mi trasmettono un’idea della varietà e anche della fragilità dell’esistenza umana. A volte sono interessato a pratiche che riguardano la danza; altre volte opero con persone che provengono da mondi che nulla hanno a che vedere con il teatro. Per taluni miei lavori ho scelto di collaborare con giocolieri professionisti e con veri sportivi, anche paralimpici.
Questo spaziare in tante discipline, l’aiuta in qualche modo per allestire spettacoli più prettamente di danza?
Non so se mi aiuta in qualcosa – ride –. Più che altro direi che tutte le pratiche sulle quali mi chino, mi raccontano una storia che appartiene poi a tutti. Mi approccio nella stessa maniera sia se devo incontrare un gruppo di danzatori classici d’eccellenza, com’era stato il caso del Balletto dell’Opera di Lione, sia se coinvolgo un gruppo di atleti. Ogni volta per me è sempre un ricominciare da zero; un apprendere una pratica nuova e al contempo l’insegnare ai nuovi interpreti cosa intendo io come performance e quali sono gli aspetti che mi interessa mettere in scena.
Tra i diversi riconoscimenti che le sono stati assegnati, spicca il Leone d’oro alla carriera per la danza ricevuto nel 2019. Cosa significa e cosa rappresenta un premio di questo calibro?
Ovviamente l’ho accolto con grande orgoglio e ne sono stato profondamente lusingato. Avevo 42 anni e non mi aspettavo minimamente di ricevere un premio alla carriera. Ho ricevuto molto, molto affetto da numerose persone. Al contempo questa scelta ha stupito e anche contrariato qualcuno. Perciò ho provato un misto di sensazioni ed emozioni. Chissà, forse si chiama Leone d’oro perché in un certo senso spinge a prendersi a carico l’onere di accettarlo; in qualche modo è qualcosa che fa maturare, poiché chiede di assumersi delle responsabilità che fino a quel momento si potevano ignorare. È stato un immenso onore, dunque, e pure un onere. Però un bellissimo onere.
Lei ama portare i suoi lavori in luoghi meno convenzionali del ‘semplice’ teatro: perché?
Sono affascinato dalla macchina teatrale tradizionale, quindi per alcune proposte mi piace confrontarmi con la frontalità, iscrivendomi in un certo senso nella storia del teatro e della danza. Allo stesso modo per altre rappresentazioni, come è il caso di ‘Save the last dance for me’, trovo interessante ricercare spazi che permettano allo spettatore di avere un accesso più diretto con la performance in termini di intimità e prossimità. Scovare luoghi in cui è possibile creare questa vicinanza è interessante, perché talvolta la lontananza del palco con la platea non permette allo spettatore di vedere alcuni dettagli.
Come sta la danza oggi? È un’arte che gode di buona salute o deve fare i conti con qualche acciacco?
Dipende dal Paese in cui viene presentata e della Svizzera non conosco a fondo la realtà. In Italia c’è un vasto pubblico di affezionati. C’è però un problema per ciò che riguarda la danza di ricerca, come quella che faccio io. Ed è che di norma viene presentata nell’ambito di festival del contemporaneo, dunque va a catturare una tipologia di spettatore assai specifica. Non è così ad esempio in Francia, dove questo stesso tipo di lavori possono trovare spazio all’interno delle stagioni teatrali. Questa scelta permette di andare ad abbracciare una tipologia di pubblico assai diversa; tra i quali gli abbonati, che invece in Italia è ancora un po’ difficile da raggiungere.