La recensione

‘La Madre’ di Florian Zeller è un’intensa Lunetta Savino

Perennemente sul palcoscenico, mentre gli altri vanno e vengono in una sarabanda di situazioni da Teatro dell’Assurdo (visto al Teatro di Locarno)

Con la regia di Marcello Cotugno
10 marzo 2023
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È una già una personalità di spicco nel mondo artistico internazionale, sebbene debba ancora compiere 45 anni. Sembra inoltre abbonato ai premi e grazie alla sua versatilità ne ha raccolti sia in ambito letterario, sia teatrale e cinematografico. La sua versione per il grande schermo di ‘The Father’ (2020) gli è valso il riconoscimento forse più prestigioso: l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, cui si è aggiunta la statuetta al protagonista di quel film, andata a Anthony Hopkins. ‘Il Padre’ è il primo tassello della sua trilogia possiamo dire familiare, poiché comprende anche ‘La Madre’ e ‘Il Figlio’. Florian Zeller, drammaturgo e regista franco/svizzero, sembra infaticabile: difatti ha già presentato – nel settembre scorso alla Mostra veneziana – il suo film ‘The Son’ (in cartellone all’Iride di Lugano), con la rediviva Laura Dern (ricordate l’inquietante ‘Twin Peaks’ di David Lynch?).

Al Teatro di Locarno abbiamo invece potuto apprezzare ‘La Madre’, con la regia di Marcello Cotugno e Lunetta Savino nel ruolo del titolo. Davvero parecchi i parallelismi/autocitazioni tra i primi due capitoli della trilogia: dalla generale incomprensione familiare alle fantasie omicide di chi esce esasperato dal comportamento altrui; da qualche dialogo ripreso quasi pari pari ("Per quanto tempo resterai qui?"), alla reiterazione di molti piccoli episodi. Le musiche del film erano di Ludovico Einaudi, qui sono sostituite da quelle altrettanto minimaliste di Adam Wiltzie e Fin Draper. E se il Padre era vittima dell’Alzheimer, la Madre Lunetta Savino patisce viceversa la cosiddetta sindrome del nido vuoto da quando suo figlio (Niccolò Ferrero) se n’è andato a vivere con la sua ragazza (Chiarastella Sorrentino).

Da quelle quattro porte che segnano un’affascinante quanto funzionale scenografia – sovrastata da un enorme specchio semovente che talvolta si inclina per riflettere la ben frequentata platea locarnese – entrano ed escono quasi senza soluzione di continuità gli altri protagonisti. Qualcuno si ferma sotto quella più vicina al pubblico per un siparietto che a volte sembra un flusso di coscienza, talaltra una confessione che deve restare intima o ancora semplicemente un serie di prole al vento. Le più accorate sono naturalmente quelle della Madre, la quale s’illudeva d’aver trovato l’uomo della sua vita a soli 22 anni ("Ma che ne sapevo allora di quell’enorme inferno che è la vita!"), ritrovandosi poi fatalmente a dover fare i conti con una routine che ha preso il posto della passione. Sospetta il tradimento del pur dolce, paziente e comprensivo marito (Andrea Renzi) che sta per partire per un convegno a Chieti ("Sul microcredito, eh? Figuriamoci, te la spasserai con qualche donzella in un motel!"). Lui cerca di rassicurarla, lei continua a rinfacciargli d’aver sacrificato sogni&desideri sull’altare della famiglia: "Dovevo badare ai miei due figli, o meglio ai tre figli, visto che ho dovuto badare anche a te proprio come una madre. Tu invece? Sei un antipadre!").

Savino è l’unica perennemente presente sul palcoscenico, mentre gli altri vanno e vengono in una sarabanda di situazioni e domande ripetute ad libitum ("Com’è andata oggi? Mi sembri pallido") che fanno pensare a un Teatro dell’Assurdo arricchito per l’occasione da qualche tormentone e altrettante battute molto apprezzate dal pubblico. C’è poco da ridere invece con le parafilosofiche considerazioni finali della Madre: "Perchè tutto questo? Perché il senso delle cose è una coperta stesa male".