Il grande jazzista italiano scomparso ieri all’età di 95 anni nelle parole di Franco Ambrosetti e Tullio De Piscopo
Era di quelli capaci di educare alla musica, cosa che ancora in pochi riescono a fare. Anzi, “la cenerentola della musica”, com’era un tempo, detto da uno dei suoi maestri poco più in là in questa pagina. Franco Cerri, padre della chitarra jazz italiana, se n’è andato ieri da Milano e da tutto il resto all’età di 95 anni. Le cronache grondano delle sue incredibili collaborazioni – Django Reinhardt, Chet Baker, Gerry Mulligan, Billie Holiday, Stéphane Grappelli, Lee Konitz, Dizzy Gillespie – e i musicisti scrivono soltanto accordi maggiori. A partire da Enrico Intra, sua collaborazione più longeva, pianista con il quale Cerri aprì la scuola ‘Musica oggi’, correva l’anno 1987: “Abbiamo suonato insieme per mezzo secolo abitando insieme questo mondo del suono cui mancherà un ottimo docente di chitarra, perché Franco riusciva a comunicare tutta la sua esperienza e personalità d’uomo, era molto comunicativo, disponibile, educato, civile, umano, quelle belle doti che dovrebbero avere tutti quanti”.
Nato a Milano il 29 gennaio del 1926, a 17 anni Franco Cerri riceve in dono dal padre una chitarra che inizia a studiare da autodidatta, lavorando nel frattempo come muratore e ascensorista ma suonando come dopolavorista durante la Seconda guerra mondiale. Fino al 1945, quando i componenti del Quartetto Cetra lo presentano a Gorni Kramer, la cui orchestra fa da trampolino di lancio. Del 1949 è l’incontro con Django Reinhardt, per due settimane all’Astoria, club milanese, in trio con il violinista Stéphane Grappelli; un anno dopo, l’incontro con il sassofonista Flavio Ambrosetti e la messa ‘in proprio’ nel Franco Cerri Quintet, col quale si apre all’Europa. Il seguito è una storia di concerti, incisioni, televisione, incursioni in campi limitrofi – Bruno Martino, Mina, Renato Carosone, Roberto Vecchioni – fino alle ultime apparizioni televisive, una sanremese (al fianco di Simona Molinari e Peter Cincotti nel 2013 in ‘Tua’, brano di Jula De Palma) e con gli immancabili Elio e le Storie Tese nel programma tv ‘Il Musichione’, in una sontuosa versione jazz di ‘Vattene amore’ con tanto di Mietta. “Buon viaggio maestro gentile”, scrivono gli Elii sui social di competenza.
«Una persona squisita, dall’educazione impressionante, mai fuori posto e particolarmente paziente soprattutto in presenza di problemi tecnici. Poteva capitare che un tecnico del suono non seguisse esattamente le indicazioni e lui, calmissimo, non se la prendeva, a differenza di altri musicisti che, li conosco bene, coi tecnici fanno certe sfuriate…». Quello di Franco Ambrosetti è un ricordo ticinese che va a ritroso, di figlio in padre: «L’ho avuto come amico – racconta alla ‘Regione’ il trombettista – e mi ospitò in casa quando suonavo al Derby; prima ancora, con mio padre Flavio, Franco era stato bassista, per poi cambiare strumento, diventando il maestro della chitarra italiana. Si può dire che esista un prima di lui e un dopo di lui, da quando dalla Scandinavia, dove aveva trascorso tanto tempo a suonare, tornò in Italia, a inizio anni 60».
L’Ambrosetti all’esordio nel jazz ricorda Cerri al Bussolotto, locale di Sergio Bernardini dedicato al jazz, a fianco della popolare Bussola in Versilia: «Già allora Franco suonava in maniera modernissima, tra Barney Kessel e Jimmy Raney; aveva ascoltato tutti i più grandi e ne incarnava quel particolare stile, quel tipo di jazz che oggi è molto cambiato. I suoi proseliti sono stati tantissimi e di chitarristi jazz ve n’è oggi tutta una serie, anche uno più bravo dell’altro. Ma la classe e il livello li ha imposti lui».
Tra i tanti concerti, ricordi luganesi di Estival Jazz relativamente recenti: «Nel 2013 mio padre era morto da un anno; chiesi apposta che venisse Franco per celebrare colui che in fondo fu il primo grande jazzista internazionale ticinese, perché prima di papà il jazz in quel Ticino un po’ ai margini, culturalmente, non c’era ancora. E visto che Franco era al basso quando mio padre incideva i 78 giri per la Columbia, con Francis Burger al piano e Rodolfo Bonetto alla batteria, lo volli fortemente a Lugano».
Ambrosetti, detto in musica, ci regala una coloritura: «Franco era anche amico di Dario Fo. Un giorno vennero a Lugano insieme, a casa nostra, per colazione. Io ero ragazzo, avrò avuto vent’anni. Un personaggio a tutto campo. Faceva anche le réclam…». Perché Franco Cerri fu anche ‘eroe’ televisivo. Bisogna essere sulla cinquantina, anno più anno meno, per ricordare uno dei più riusciti tormentoni della pubblicità che non è riuscito ad affossare il musicista mai. Fa un po’ specie, ed è un tantino irrispettoso che quotidiani di una certa importanza abbiano titolato “Addio a Franco Cerri, jazzista e uomo in ammollo’, dalla réclame del Bio Presto col chitarrista a decantare le qualità del prodotto dall’interno di una lavatrice: «Sì, poco rispettoso», commenta Ambrosetti. «Ma almeno la gente comune che non seguiva il jazz sapeva che Franco era un jazzista, sebbene perché lo vedevano in ammollo e non viceversa. Ma era una situazione surreale come le barzellette che raccontava, tutte ‘fuori’ ma dette da un uomo intelligente e colto. Tale resterà nella memoria collettiva».
Il maestro Tullio De Piscopo, incrociato sulle rive asconesi soltanto un mese fa, è il nostro ricordo oltreconfine. «È vero, io e Franco Ambrosetti abbiamo suonato insieme tante volte con Franco Cerri. L’occasione più importante fu per i suoi ottant’anni, una festa straordinaria che gli organizzarono al Teatro dell’Arcimboldi di Milano. Suonammo con lui, con Enrico Intra, Dado Moroni e altri grandi musicisti. È stato, ed è ancora, il maestro del jazz italiano. Fu lui a insegnarmi il jazz del quale avevo sete e che grazie a lui ho imparato»». Per De Piscopo, Cerri è ricordi di gioventù e di formazione musicale: «Quando arrivai a Milano ebbi il suo grande appoggio. Volevo suonare il jazz e subito ebbi la fortuna e il privilegio di suonare nel suo nuovo gruppo, che si chiamava Quartettino, una formazione senza pianoforte, con due chitarre, contrabbasso e batteria. Scriveva arrangiamenti straordinari, con brani storici adattati alle due chitarre. All’altra chitarra c’era il grande Angelo Arienti, al contrabbasso Giorgio Azzolini, e questo scugnizzo napoletano giovanissimo alla batteria. Lo dovrebbero ristampare quel disco…».
Tornano le barzellette, la persona umile, e torna il piacere di stare in sua compagnia. Torna anche un programma tv Rai intitolato ‘Fine serata da Franco Cerri’: «Fu uno dei primi a portare il jazz nelle case degli italiani da uno studio allestito come un salotto dove ospitava musicisti come Dizzie Gillespie. Quel programma fu decisivo per chi amava il jazz e poteva finalmente vedere questa musica così bistrattata, la cenerentola della musica. Armonicamente, Franco era straordinario, si faceva capire. A volte nel jazz non si comprende immediatamente dove sta la struttura: con lui, era tutto chiaro». Torna anche l’uomo in ammollo, e quell’infelice titolare che lo accompagna in queste ore: «Bruttissima definizione. Quella non era musica, era un’altra cosa, anche se ben fatta. Ma non capisco il voler mettere insieme». Detto alla De Piscopo: «Io faccio il jazzista ma posso anche fare un brano che s’intitola ‘Santo Andamento lento’, come lo chiamo io, perché mi ha dato possibilità economiche che il jazz spesso non ti può dare. E ben vengano cose come quelle che ha fatto lui, perché permettono di fare più jazz». A questo proposito: «Senti la grandezza: quando entrava in scena subito diceva: “A proposito, volevo chiarire che non sono davvero in ammollo, è solo un trucco cinematografico…”».