Classe 1941, jazzista e imprenditore, ha suonato e ancora suona con i più grandi. Compie ottant’anni il 10 dicembre
‘Ottant’anni’ suona swing, forse shuffle. Suona elastico, rilassato, slow. «Papà mi raccontava che a Zurigo, quando avevo quattro anni, ogni volta che arrivavano musicisti a casa si metteva un disco sul piatto e mi si faceva indovinare chi suonasse, e io li indovinavo tutti. Papà e gli altri rimanevano stupiti ma non c’era assolutamente nulla di straordinario in quello che facevo, perché non è che ve ne fossero tanti, di jazzisti. C’erano Teddy Wilson, Glenn Miller, Coleman Hawkins, Benny Goodman».
Nell’andare e venire dalla sua stanza della musica ci s’imbatte per forza nell’attestato di Chevalier des Arts et des Lettres, incorniciato senza grandeur; tra il bianco e nero delle fotografie di ieri e quelle a colori di oggi coi grandi del jazz al fianco dei quali ha suonato, e sono un’infinità (foto da extrasistole, quelle che dici “Ma sì, è proprio lui”), c’è pure l’attestato del ‘Miglior musicista d’Europa’ assegnatogli dalla Rai nell’85. «Non si può definire un miglior musicista d’Europa, semplicemente perché non esiste un ‘miglior musicista d’Europa’». Franco Ambrosetti minimizza, ma quei riconoscimenti sono parte della sua storia, per certi versi – strettamente musicali – atipica.
“Papà e mamma facevano esercizio in casa, ogni giorno c’era musica”
“È difficile, se non impossibile, trovare nell’albero genealogico dei musicisti di jazz una storia analoga a quella della famiglia Ambrosetti: padre, figlio e nipote jazzisti e impegnati al tempo stesso in importanti attività extramusicali”, ovvero aziende con centinaia di dipendenti. Così scrive di Ambrosetti Maurizio Franco, aprendo la di lui autobiografia. Il padre è Flavio, classe 1919, figura di spicco del jazz europeo, sassofonista che divulgò internazionalmente il verbo del be-bop, illuminato dall’incontro con Charlie Parker; il figlio è Franco, dalla carriera solista che per popolarità ha superato quella del padre, con lui negli All Stars prima e in The Band poi, quartetto con George Gruntz e Daniel Humair diventato in seguito George Gruntz Concert Jazz Band; il nipote è Gianluca, con più di un piede in ciò che non è musica, a sbilanciare l’equità pedestre dei suoi predecessori.
«Papà – racconta Franco – studiava al Politecnico durante la guerra, che in Svizzera non si sentiva se non per le sirene. Negli anni vissuti a Zurigo mia mamma suonava la batteria, papà il vibrafono e il sassofono. Veniva da una famiglia aristocratica romana, crebbe in un convento di suore, poi nel ’38 a Riccione conobbe mio padre. Credo che avesse cominciato a suonare la batteria per non perderlo di vista, non certo per amore di Gene Krupa. Nessuna donna in epoca fascista, tempi in cui il jazz era tutt’altro che amato, si sarebbe sognata di suonare un tale strumento. Papà e mamma facevano esercizio in casa, ogni giorno c’era musica».
Franco Ambrosetti, trombettista e flicornista dai pianistici studi classici, compie ottant’anni il 10 dicembre, ma la Rsi gli farà la festa domani, martedì 7 dicembre, con Dado Moroni al pianoforte per qualche brano in duo in un più generale viaggio a ritroso nel tempo. Basilea, invece, ha anticipato tutti ospitando Ambrosetti lo scorso 25 novembre insieme a John Scofield (chitarra), Uri Caine (pianoforte), Scott Colley (basso) e Peter Erskine (batteria), una All Star band per il Birthday Gala tenutosi nella locale Volkshaus. Togliendo Erskine e aggiungendo Jack DeJohnette, sono le stelle di ‘Lost Within You’, album che quest’anno ha aggiornato la discografia di Ambrosetti a 56 anni dell’esordio con l’eponimo ‘Jazz Portrait’ (1965).
‘Lost Within You’ è un volo ispirato da un racconto di Borges e ha, per questo, il suo centro in ‘Dreams of a Butterfly’ (di Ambrosetti). Ma tocca anche McCoy Tyner e la coppia Miles Davis-Bill Evans di ‘Flamenco Sketches’. Apre ‘Peace’ di Horace Silver, nome chiave quando di Ambrosetti si vuole spiegare la doppia strada imprenditore/improvvisatore. L’aneddoto arriva dal tour statunitense della George Gruntz Concert Jazz Band, che nel 1987, insieme al nucleo fisso, schierava nomi come Joe Henderson, Lee Konitz, Kenny Wheeler, oltre alla coppia Rava-Ambrosetti detta ‘Salami Section’ per via del chiacchiericcio e del buonumore costanti.
“Ricordo che gli dissi di aver suonato in modo terribile, che in fondo potevo vivere anche senza la tromba e lui mi rispose che avrei dovuto continuare, per rispetto del talento di cui ero dotato”
«A Los Angeles – ricorda Franco – suonavamo davanti a Horace Silver, grande dell’hard bop per il quale avevo un’ammirazione smisurata. Ci tenevo a fare la miglior figura possibile eppure suonai male come mai mi era capitato prima. Non mi ero preparato come avrei dovuto, e per suonare la tromba non esiste nessuna scorciatoia, nessun artificio meccanico: c’è soltanto il tuo labbro, che va esercitato e il mio di quella sera era rigido, indurito. La mia delusione fu grande, mi chiesi per una volta ancora chi me lo facesse fare di tenere i piedi in due scarpe (“Equilibrismo assurdo”, lo chiama nel libro, ndr). Mi ritirai nel backstage, poco fuori c’era una roggia e la voglia di buttarvi la tromba dentro mi passò per la testa più d’una volta; poi sentii una presenza, assolutamente reale, quella di Enrico Rava: ricordo che gli dissi di aver suonato in modo terribile, che in fondo potevo vivere anche senza la tromba e lui mi rispose che avrei dovuto continuare per rispetto del talento di cui ero dotato, per senso di responsabilità verso gli altri, tanto verso coloro che il talento non lo possiedono che verso tutti quelli che fanno una fatica dell’anima non solo a sbarcare il lunario, ma anche a mantenere il livello professionale raggiunto». Tornando a Horace Silver, tornando a ‘Peace’, forse fu quella sera che Ambrosetti trovò la pace tra le due sue anime.
“Se sei nato musicista puoi fare qualunque mestiere”, ha detto un giorno presentando l’autobiografia, che ha un titolo e un sottotitolo, ma sono un titolo e mezzo. Il libro è ‘La scelta di non scegliere’, il mezzo titolo è ‘Una vita vissuta tra industria e jazz’, che sarebbe perfetto per memorie di un produttore discografico, ma qui l’industria è altra. «Oggi chiamano i direttori d’orchestra a parlare ai manager su come si gestisce il personale e può essere utile e interessante. Anche io ho applicato la musica all’altro mio lavoro, ma più da ultimo della fila che non da band leader. Per capire le dinamiche lavorative mi è servito di più essere, giovanissimo, l’ultimo arrivato nella formazione di Romano Mussolini. Ricordo una manifestazione itinerante di musica leggera in cui c’erano Peppino Di Capri, Sergio Endrigo, con il quale strinsi amicizia, situazione nella quale ai jazzisti veniva riservato un trattamento ben diverso dai cantanti in fatto di vitto e alloggio. Quella condizione mi è servita alla gestione delle mie aziende, mi ha permesso di chiamare i miei operai per nome, di trattarli come persone».
“Una volta capito Chopin, perché mai avrei dovuto suonarlo in maniera perfetta?”
In casa Ambrosetti è appeso anche l’attestato della Vienna International Jazz Composition: anno 1966, primo classificato davanti a Randy Brecker. «No, non fu quello che mi fece prendere coscienza dei miei mezzi». Nemmeno Miles Davis tempo prima, interessatosi tramite il critico Arrigo Polillo a quel “trombettista italiano” che “suonava come i neri”. Ambrosetti incontrerà Miles nel 1972 a Bologna e l’omologo gli stringerà forte il braccio prima di salire sul palco, in una delle rare esternazioni del principe delle tenebre da intendersi come apprezzamento. «Presi atto delle mie qualità proprio durante la mia prima tournée con Romano Mussolini, pianista con il blues nel sangue, forse non una gran tecnica ma mai ‘classicheggiante’, non di quelli che mancavano di swing, per intenderci. Avevo i suoi complimenti e, di mio, mi accorgevo di quanto facile mi venisse fare quel che facevo. E non mi davo arie, perché avere facilità per uno strumento non è certo un merito». Meno ‘sentimentale’ il rapporto con il pianoforte: «Ero un pessimo pianista, otto anni di pianoforte classico e poi basta: una volta capito Chopin, perché mai avrei dovuto suonarlo in maniera perfetta? M’interessava la concezione, suonarlo con lo spirito giusto, se poi sbagliavo una nota che male c’era? E invece nella musica classica più perfetto sei e meglio è. Io, nell’arte in generale, trovo che la perfezione limiti la creatività. La perfezione non esiste, la qualità sì. Ma quella è un’altra cosa».
Non parlate a Franco Ambrosetti dei Måneskin; parlategli piuttosto dei Pink Floyd o di Frank Zappa, «artista geniale, capace di stesure complicatissime, basterebbero quelle scritte per la London Symphony Orchestra». Parlategli degli Earth Wind & Fire e di quando il pop non annoverava il trash, ma voci come quella di Whitney Houston: «A Zurigo si presentò con una musicassetta, forse pensando che lontano dall’America non avrebbe trovato nessuno in grado di accompagnarla. Era il 1983, prima del suo album d’esordio, promuoveva un singolo; prima di assecondarla, l’organizzatore le propose di ascoltarci per una decina di battute e poi, se non le fossimo piaciuti, avrebbe potuto usare il nastro. L’accompagnammo per tutto il pezzo, lei cantò meravigliosamente, tanto bene quant’era incredibilmente bella». Di voce in voce, da Whitney a Mina: «Nei brani in cui ho suonato, così ben curati dal figlio Massimiliano (Pani, ndr), cercavo di non essere ‘complicato’, e lei mi spingeva a osare. Una musicista».
“Quando suonavano Oscar Peterson o Bill Evans, io andavo a vederli di corsa. Oggi cerco ancora lo stupore che mi hanno provocato”
Il pop dura il tempo di un singolo. «Il jazz è cambiato. Quello degli inizi era particolare. Lo è ancora, in effetti, tranne che oggi è cultura e non più subcultura. All’epoca non c’erano le scuole a sfornare musicisti a tutto andare, come accade oggi. E c’erano le jam session che oggi non si fanno più. In quegli anni, alla fine di ogni festival si andava in un club, si suonava fino alle 5 del mattino e poteva capitarti, come mi è capitato, di suonare con Freddie Hubbard o Blue Mitchell. A volte per non perdermi la jam prendevo l’aereo all’alba e dormivo in volo». Oggi, invece, «tutto è pianificato, dall’aereo all’albergo, dall’albergo al soundcheck; di solito si mangia male, perché i club non sono ristoranti, e alla fine te ne vai a letto con un panino e l’indomani mattina riparti chiedendoti in quale diavolo di città tu sia stato la sera prima».
Un buffetto ai giovani: «Ho ottant’anni e non ne vedo ai concerti, nemmeno quelli delle scuole. Quando suonavano Oscar Peterson o Bill Evans, io andavo a vederli di corsa. Oggi cerco ancora lo stupore che mi hanno provocato loro, lo stupore che da bambino ti lascia con la bocca aperta. Qualcuno ha scritto: “Un uomo creativo è un bambino sopravvissuto”. Ecco, è il senso di ciò che penso».
‘Ottant’anni’ suona swing, forse shuffle. Suona elastico, rilassato, slow. «Non saprei, non ci ho mai pensato. Per me, alla fine, ‘ottanta’ è soltanto un numero. A parte ieri, con la terza vaccinazione, che mi sono sentito un vecchio di cent’anni, ma poi è passata. Ora sto bene di nuovo, faccio esercizi, suono tutti i giorni. Ho lasciato tutte le cariche che avevo, la Camera di commercio, il Conservatorio, la Scuola di musica, le varie presidenze. Quando uno arriva a ottant’anni deve aver maturato una grande qualità: quella di piantarla lì». E a ottant’anni, finalmente, Franco Ambrosetti può fare il musicista a tempo pieno: alla Sinatra, a modo suo, e senza alcun rimpianto, è la prima volta che ha scelto di scegliere.