La biografia del pianoman è nelle sale svizzere, ma il vero Re del Pop meritava ben altro tributo. Contento lui, che ne è il produttore, contenti tutti (o quasi)
Ebbene sì, abbiamo pianto, ma di rabbia guardando ‘Rocketman’, la storia di Elton John voluta da Elton John e prodotta da Elton John (per la serie “se proprio Hollywood vuole sapere com’è andata, glielo spiego io”). Perché il film nelle sale svizzere da ieri è l’occasione persa per raccontare un gigante della musica; perché chi in gioventù avesse amato il pianista che si consumava le dita sul pianoforte fino a sanguinare, è meglio che si ricordi la star com’era prima di questa pellicola. E non perché ‘Rocketman’ sveli i suoi lati più oscuri, che sono noti e, finalmente, i benvenuti (rispetto al castigato ‘Bohemian Rhapsody’, qui le dipendenze, la promiscuità, gli isterismi e la cocaina scorrono a fiumi); ma perché il film a noi è parso esattamente come parve al sommo Brusaporco a Cannes: ridicolo.
Fa male dirlo, ma il più grande compositore di canzoni dopo i Beatles esce ai nostri occhi con le ossa rotte da un film in cui molto è solo abbozzato, ma anche gonfiato, melodrammatico ed eccessivo. Come se non bastasse la realtà, già eccessiva di suo, di una vita della quale tutti vorrebbero essere biografi. In quello che dovrebbe essere un musical, inoltre, sentir cantare Taron Egerton, l’attore che lo impersona, risulta a tratti fastidioso; e per chi conoscesse la discografia del pianista, c’è da perdersi, musicalmente, per tanta (voluta) incoerenza storica.
La storia. Per salvarsi da decenni di eccessi, Elton John (classe 1947) entra vestito da Lucifero nella sede degli alcolisti anonimi (ma non farebbero differenza i cocainomani anonimi, i sessualmente bulimici anonimi, gli anonimi afflitti da sindrome da acquisto compulsivo e dipendenze affini); dalla seduta di gruppo si dipanano flashback di vita vissuta e di musica raccontata (poca), fino a una conclusione (in)degna del Woody Allen di ‘Harry a pezzi’.
Così come Farrokh Bulsara sarà Freddie Mercury, prima di diventare Elton John – “Elton” da Elton Dean, sassofonista dei Bluesology, prima band di Elton, e “John” dal cantante Long John Baldry e non da John Lennon, come millanta il film – Reginald Kenneth Dwight è vittima di un nome ingombrante e di un padre che ascolta Count Basie osteggiando il talento pianistico del pargoletto, che a orecchio riproduce intere partiture; bimbo timido, complessato e tendente al sovrappeso che sogna di diventare il nuovo Jerry Lee Lewis, Reg, da rospo, diventerà principe grazie all’incontro con il paroliere Bernie Taupin; tra il pianista, a disagio con i testi, e il Mogol del Lincolnshire il cui rigetto dello star system è tutto nel testo di 'Goodbye yellow brick road', è l’inizio di un sodalizio giunto sino a noi.
Tutto quadra, nella storia, tranne le canzoni. In un interno di famiglia di fine anni 50, tutti (anche nonna Ivy) cantano ‘I want love’ scritta da Elton nel 2001; un adolescente Reginald pianobarista canta ‘Saturday night’s (alright for fighting)’ dieci anni prima della sua uscita; nel 1968, negli studi dell’editore Dick James, Elton accenna ‘Candle in the wind’ (che scriverà solo nel 1973), ‘I guess that’s why they call it the blues’ (non prima del 1983) e ‘Sad songs’ (non prima del 1984). Sul filo di altri paradossi spaziotemporali per spiegare i quali servirebbe il dottor Emmett Brown, si arriva (spoiler) alla scena finale, l’Elton John dei primi anni 90 in clinica per disintossicarsi al quale fa visita l’amico Bernie, portando in dono un nuovo testo: la star si siede al primo pianoforte che trova e compone un brano di sette anni prima (‘I’m still standing’).
L’assurdità più evidente è però l’esordio al Troubadour di Los Angeles nell’agosto del 1970, la notte in cui Elton John incantò l’America suonando canzoni dal capolavoro del pop sinfonico che portava il suo nome. Nel film, su quel palco, Elton-Tagerton suona invece, con tre anni d’anticipo, ‘Crocodile rock’, la svolta pop invisa a tutti quelli che di quel 23enne inglese, il giorno dopo il Troubadour, scrissero “è nata una stella” (per poi mollarlo con l’arrivo del coccodrillo). E nel mezzo di quella canzone, che collocata quella sera, sul quel palco, è un inno al totale menefreghismo storico-musicale di questa pellicola, il pianista si libra in volo come David Copperfield...
La storia vera di Elton John è più appassionante di ‘Rocketman’ così come girato da Dexter Fletcher, regista che sostituì Bryan Singer in coda al film su Freddie Mercury. In attesa dell’autobiografia ‘Me Elton John’, in uscita in autunno, quegli anni di eccessi si possono leggere con più equilibrata forza in ‘Elton John’ di Tom Doyle, libro che raccoglie le interviste integrali rilasciategli dall’artista. Scoprendo, per esempio, che Elton e Bernie non hanno mai litigato, al contrario di quanto stucchevolmente narra il film.
Se ‘Bohemian Rhapsody’ apriva una finestra sulla musica con le genesi delle canzoni, ‘Rocketman’ non è un film per musicisti: il ‘Troubadour’ è un falso storico, la ricostruzione dello storico concerto al Dodger Stadium dura pochi miseri secondi, non vi è un solo cenno alla Elton John Band, agli album storici scritti in poche ore, all’incontro con John Lennon, a quello con Elvis; per gli affamati di storia c’è solo il tempo per veder nascere ‘Your song’, ma – a parità di canzone – lo splendido spot natalizio della John Lewis & Partners che dall’Elton adulto conduce al piccolo Reg seduto al pianoforte di casa, batte la ‘Your song’ del film per intensità.
In quelle stesse ambientazioni londinesi, il paragone tra Elton e Freddie è automatico. Ma laddove Rami Malek è Mercury già dallo sguardo, il monoespressione Egerton non è Elton nemmeno se cerca di riprodurne le smorfie e le estemporanee effemminatezze. Peggio ancora: se la voce di Mercury in ‘Bohemian Rhapsody’ è Malek all’1% (il resto è l’originale), Egerton è solo un buon karaoke di Elton John.
Da un film che, musica a parte, riporta fedelmente il tentato suicidio del 1975 e la confessione dell’Elton promiscuo che dice di aver provato ogni tipo di droga e di essersi “sco**** tutto quello che si muoveva”, escono bene Bernie Taupin, benino mamma Sheila, male il padre Stephen e malissimo il manager-amante John Reid, lo stesso dei Queen (e di uno che nel 1974 fece un occhio nero a una giornalista neozelandese e che, per questo, si fece 28 giorni di carcere, non ci si poteva attendere certo una celebrazione).
Alla fine di un’opera che pare uno dei videoepitaffi su ordinazione del Robin Williams di ‘The final cut’ – e trascorse due ore a cercare Elton John in un attore dalla mascella quadrata che con l’ovale dell’originale non ha nulla da spartire, nemmeno il naso a patata, men che meno il culo grosso o le movenze da pinguino – ci alziamo in piedi ai titoli di coda per amore (e sulle immagini) dell’Elton quello vero, geniale, assurdo, inarrivabile, benefattore, orgogliosamente e autoironicamente gay, al quale si continua a voler bene per la stessa ragione degli Oscar alla carriera. Anche per questo, lui che non è il Re del Pop solo perché Michael Jackson è già morto, Elton 'Hercules' John si meritava ben altra celebrazione in vita. Ma, come si dice di chi ci mette i soldi, contento lui, contenti (quasi) tutti.