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Cinquant’anni fa ‘Elton John’, l’album

Usciva nell’aprile del 1970 il disco, con dentro dieci perle e la ballad di tutte le ballad. Breve storia di un capolavoro (che ha il produttore di 'Space Oddity')

Aprile 1970

Usciva nell’aprile del 1970 il disco, con dentro dieci perle e la ballad di tutte le ballad. Breve storia di un capolavoro (che ha il produttore di 'Space Oddity')

18 aprile 2020
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“Se siete stufi della vostra routine quotidiana, vi consiglio caldamente di andare in tour insieme a un eccentrico cantante blues gay alto due metri con il vizio della bottiglia”. Questo, in sintesi, il presente di Reginald Kenneth Dwight nella swinging London di fine anni Sessanta, quando ancora, defilato, faceva il tastierista nella band del cantante (alto due metri) Long John Baldry. Prima, cioè, di incontrare il paroliere Bernie Taupin e di provare con lui – senza successo – a scrivere per altri interpreti alla maniera dei Beatles, di Cat Stevens e di Leonard Cohen e di trovare – nel 1969, in occasione dell’uscita di ‘Empty Sky’, primo album “che non fece il botto” – un nome d’arte. Qualcosa di più adatto a un pianista-cantante innamorato di Jerry Lee Lewis e Little Richard, ma anche folgorato da Leon Russell – “Era come se mi fosse entrato nella testa e avesse capito esattamente come volevo suonare il pianoforte prima di me” – e The Band – “Musicisti bianchi che facevano soul senza suonare ‘In the Midnight Hour’”. Un anno dopo, il 10 di aprile di cinquant’anni fa, l’album ‘Elton John’ farà del timido pianista tendente al sovrappeso l’erede in forma singola dei quattro Beatles appena scioltisi.

“Sapevamo di aver realizzato qualcosa di buono”, scrive Elton di quell’album che porta il suo nome nella sua autobiografia (laddove non specificato, è da qui che virgolettiamo, grazie Mondadori). Un disco chiamato in confidenza ‘The Black Album’ per via della buia e iconica foto di copertina (black, tre anni più tardi, sarà anche Billy Joel in primo piano su ‘Piano Man’), un lavoro nato con un budget di 6mila sterline in divenire per quello che secondo il produttore del disco, Gus Dudgeon – affermatosi con il singolo ‘Space Oddity’ di David Bowie – sarebbe dovuto essere non tanto il tentativo di far meglio di ‘Empty Sky’, quanto quello di “mettere in circolazione una serie di demo talmente belli da convincere altri artisti a interpretare le sue canzoni”, racconta Dudgeon a David Buckley in “Elton John, la biografia” (Rizzoli).

Your song: 'Scritta in cinque minuti, registrata in due'

Sempre stando a Buckley, per gli arrangiamenti dell’album si sarebbe chiesto a George Martin al quale, pretendendo questi il controllo sul prodotto finale, fu preferito Paul Buckmaster, anch’egli con Dudgeon in ‘Space Oddity’ (un forte legame con Miles Davis, al lavoro su Stones e Grateful Dead, Carly Simon e Céline Dion, Buckmaster arrangerà l’album d’esordio di Angelo Branduardi) e convinto dalla bontà di una canzone, ‘Your Song’, che Elton definirà come “scritta in cinque minuti, registrata in due” e il paroliere come “scritta da un 17enne che muore dalla voglia di scopare”, ovvero “il ritratto di me a quei tempi”.

'Ogni pezzo era da k.o.'

Inciso nel gennaio del 1970, due canzoni a ogni session di tre ore l’una, l’album diventerà uno dei due dischi per i quali Elton John compare nelle Enciclopedie del Rock insieme a ‘Goodbye Yellow Brick Road’ (1973), il pop itself. Da ‘Elton John’, ma solo una volta che le radio statunitensi l’avranno passata a dovere, ‘Your Song’ farà quel che non aveva fatto il primo singolo  ‘Border Song’, un gospel che da allora sino ai giorni nostri canteranno in molti, da Aretha Franklin a Diana Krall).

Nelle dieci tracce del disco – “Non credevo alle mie orecchie, ogni pezzo era da k.o.”, commenterà Dudgeon – pianoforte, clavicembalo e orchestra sinfonica sono un tutt’uno nelle amorevoli ‘The Greatest Discovery’ e ‘I need you to turn to’, nelle drammatiche ‘Sixty Years On’ e ‘The King Must Die’ e nel marchio di fabbrica pianistico rock-gospel ‘Take Me To The pilot’, un testo “che ancora io e Bernie non abbiamo la minima idea di che diavolo parli”. L’accoglienza dell’album? Rolling Stone: “Il guaio grosso di Elton John è che prima di trovarci Elton John devi sciropparti un mare di banalità”, con allusione ai “pomposi interventi orchestrali”. Così pomposi che segneranno gli anni a venire, da James Taylor ad Antonello Venditti (‘Orso Bruno’, che attinge a iosa, anche troppo).

Ingaggiato come supporter di Sérgio Mendes per una serata di bossanova, dunque sommerso di fischi, schedulato in Belgio per un concerto che si rivelerà poi un concorso televisivo, dopo l’uscita del disco la Elton John Band è pronta a sbarcare negli States per accompagnare Jeff Beck, se non fosse che Dick James, editore di Elton e ancor prima dei Beatles – uno per il quale il giovane Reg era stato per molto tempo solo “lenti strappalacrime e bubblegum pop”, cose per teenagers e pre-teenagers – manda all’aria la cosa per portarcelo lui, il 23enne pianista di belle speranze, negli Stati Uniti: “Per vostra informazione – dice all’agente di Beck – fra sei mesi il mio artista guadagnerà il doppio di Jeff”. E si sbaglierà (non guadagnerà il doppio, ma molto, molto di più).

25 agosto 1970

Nell’estate di quell’anno, dopo essere atterrata a Los Angeles, una truppa d'inglesi viaggia dall’aeroporto fino a Sunset Boulevard a bordo di un bus londinese rosso fiammante, chicca del lancio promozionale, sul quale è scritto “È arrivato Elton John”; a bordo c’è anche Taupin il paroliere “che scivolava sempre più giù sul sedile, fino a rendersi invisibile all’esterno, probabilmente timoroso che Bob Dylan o un membro della Band ci incrociasse e gli ridesse in faccia”.

Con Nigel Olson, una macchina da guerra alla batteria, e il fu Dee Murray, altra macchina da guerra di origini psichedeliche portatrice di linee di basso che ancora oggi paiono un bouquet floreale, il 25 agosto del 1970 Elton John si presenta al Troubadour di Los Angeles, trampolino di lancio per singers-songwriters, davanti al suo idolo Leon Russel (“Merda. Mi ha smascherato” Adesso dirà a tutti quanti che sono un buffone. E dirà a me che non so suonare”, penserà quella sera), introdotto al pubblico da Neil Diamond e con mezzo mondo che conta in platea.

'Non era così che si vestiva un sensibile cantautore americano nel 1970'

“Continuavano a portarmi mani da stringere. Giornalisti, celebrità, Quincy Jones. La moglie di Quincy Jones. I figli di Quincy Jones”. Brian Wilson dei Beach Boys, poco tempo dopo, lo accoglierà in casa canticchiando “I hope you don’t mind, I hope you don’t mind” da ‘Your Song’, dando un senso all’accaduto. Quella sera, il non più Reginald Kenneth Dwight sale sul palco in salopette gialla, maglietta a maniche lunghe coperta di stelle e un paio di altrettanto gialli scarponi da carpentiere con due grosse ali azzurre attaccate: “Non era così che si vestiva un sensibile cantautore americano nel 1970. Non era così che si vestiva una persona sana di mente nel 1970”. Fu rock and roll, anche se quella sera, malgrado quel che racconta ‘Rocket Man’, biopic uscito lo scorso anno, Elton John non cantò ‘Crocodile Rock’, ma i brani di quell'album di culto scritti dall'artista di culto prima della sua trasformazione in showman (e a noi, lo showman, non è mai dispiaciuto. Anzi).