Ticino7

Come cambia il cinema nella Netflix Age

La rivoluzione del digitale e dello streaming cambia i giochi e rivoluziona forme e stili. È il web, bellezza... ma non solo

(Zara)
28 luglio 2018
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Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

Una rivoluzione, «spaventosa» e inarrestabile. Prima sono arrivate loro, le videocamere digitali, che negli anni Novanta hanno cambiato le regole del gioco, permettendo a milioni di aspiranti registi di produrre e montare i loro film «in casa». Poi è stato il turno della più grande svolta tecnologica – e secondo molti antropologica – dei nostri tempi: la Rete, strumento di diffusione di contenuti potenzialmente accessibile a chiunque. Infine, tra il 2011 e il 2012, la pellicola cinematografica è stata mandata in pensione da leggerissimi file digitali. Da qui, anche il sogno del Nuovo Cinema Paradiso si è infranto: oggi gli schermi cinematografici – sempre meno, e sempre più concentrati nella stessa struttura – assomigliano a grossi server da riprogrammare ogni settimana. In seguito a questo, anche i più ottimisti hanno iniziato a temere per le sorti della settima arte. Tramontata l’idea romantica di un’esperienza da fruire nello spazio buio di una sala pubblica, si sono fatte strada mille altre possibilità di visione: PC, tablet, smartphone che consentono di guardare un film in qualunque luogo e tempo.

Nonostante tutto, però, si assiste a fenomeni che vanno in controtendenza. Non solo la «retromania» di qualche nostalgico, o la battaglia di alcuni registi hollywoodiani – Christopher Nolan su tutti e pure Quentin Tarantino –
per mantenere la possibilità di girare e proiettare i loro film su pellicola. Ma anche il crescente desiderio del pubblico di occasioni di incontro non mediato, come i festival di cinema. Il loro capostipite, la Mostra del Cinema di Venezia, resiste dal 1932, mentre il poco più giovane Locarno Festival, negli ultimi anni si è ulteriormente consolidato come evento, garantendo a ogni edizione un numero crescente di presenze. 

L’arrivo di Netflix

Se la rivoluzione digitale in sé non ha scalfito tutti i rituali collettivi del cinema, un’altra minaccia sta creando scompiglio: Netflix. Una società presente da oltre due decenni, ma diventata solo di recente una superpotenza mediatica, passando dalla vendita e noleggio di DVD, all’offerta di film in streaming online, fino alla produzione di propri show, fiction e documentari. La serie House of Cards, la sua prima incursione nei contenuti originali, ha debuttato solo cinque anni fa, ma ha segnato un vero e proprio terremoto tra le major hollywoodiane. Tutto è partito dall’idea dei fondatori Reed Hastings e Marc Randolph di investire i proventi dello streaming in produzioni esclusive: una strategia vincente, che ha portato a una crescita inarrestabile. L'azienda vanta attualmente oltre 125 milioni di abbonati in tutto il mondo, e lo scorso aprile ha annunciato che i suoi utenti sono cresciuti di oltre 7 milioni nei primi tre mesi del 2018, segnando il più grande aumento di sempre. Subito sotto si attesta la prima piattaforma concorrente, Amazon Prime Video, con i suoi 100 milioni di abbonati. Di fronte alla nascita di nuove realtà affini, produrre contenuti originali si è rivelato non solo un’astuzia, ma un passo fondamentale. Soprattutto in vista del 2019, quando la maggiore multinazionale dell’intrattenimento globale, la Disney, lancerà il proprio servizio di streaming. E c’è già chi trema pensando alle possibilità di sfruttamento editoriale fornite da marchi come Marvel e Star Wars, entrambi di proprietà della casa di Topolino. 

 
Film vs serie TV?

Con il suo servizio, Netflix ha contribuito all’esplosione di popolarità delle serie TV, creando persino una nuova abitudine di consumo: il binge watching, la visione consecutiva di tutti gli episodi di una serie. Se la parola d’ordine della società è sempre stata soddisfare i desideri degli abbonati, ecco che anche l’attesa settimanale per conoscere la risoluzione di una storia è stata eliminata, a favore di intense (quanto dannose) scorpacciate notturne. 

Sempre più sofisticate e di qualità, le serie televisive hanno attratto anche molte star provenienti dal cinema, oltre a grandi registi, con esiti più o meno incoraggianti. Tanto la ripresa di Twin Peaks di David Lynch ha entusiasmato lo zoccolo duro dei suoi fan, quanto la serie per Amazon di Woody Allen ha invece deluso le aspettative. E se in origine erano i film a ispirare spin-off da sviluppare con la serialità televisiva, è di pochi giorni fa la notizia che Downton Abbey farà il salto al grande schermo. I cinefili convertiti alla seriemania sono ormai numerosissimi, stufi di un’industria cinematografica che continua a spremere i suoi franchise senza proporre nuove idee. Secondo David Levine di HBO «le storie intime trovano poco spazio. Peggio: trovano pochi investimenti. E alla fine, quando li trovano, vengono distribuite online, oppure direttamente in televisione e home video. Insomma: lontano dalla sala». Paradossalmente, la televisione può oggi permettersi di azzardare di più e con investimenti inferiori: un solo episodio di Game of Thrones è arrivato a costare circa 15 milioni di dollari, una cifra minima rispetto a un blockbuster hollywoodiano. Le serie TV prevedono inoltre i ruoli dello showrunner e dello sceneggiatore – il primo inedito sul grande schermo – che danno una direzione editoriale molto più forte e precisa al prodotto.


Le debolezze di una strategia troppo aggressiva

La tendenza di Netflix alla produzione intensiva ha già mostrato qualche segnale di debolezza: spaziando in pochi anni in ogni genere di contenuto, molti dei risultati si sono dimostrati mediocri. In particolare è la produzione cinematografica a soffrire, con diversi titoli accolti nei maggiori festival e snobbati dalla critica, come Okja dell’autore sudcoreano Bong Joon-ho.
Oppure produzioni studiate a tavolino per accontentare pubblici diversi, come Kodachrome diel regista Mark Raso. Qui uno spunto interessante – un padre e suo figlio visitano l'ultimo laboratorio dove si sviluppano le pellicole Kodachrome, in un viaggio che cambierà la loro vita – è stato trasformato in una produzione anonima e priva di specificità, come evidenziato dal critico Sean Fennessey: «Né commedia né dramma, né speciale né terribile, né folgorante né veramente dimenticabile, è l’emblema di molti dei prodotti che consumiamo nel 2018». La fretta di creare contenuti fa sì che si inseguano tendenze già esistenti senza sperimentare troppo sul piano narrativo e stilistico. Se nel passato ai cambiamenti tecnologici ed economici dell’industria ha fatto seguito un ripensamento formale dei film – basti pensare al sonoro, introdotto nel 1927, e alla nascita di un nuovo genere come il musical – non sembra essere questo il caso della rivoluzione attribuita a Netflix. 


La querelle con il Festival di Cannes

È stato Beasts of No Nation (2015) di Cary Fukunaga, l’esordio al lungometraggio di Netflix, ad alzare il primo polverone sulle politiche distributive della piattaforma. A fare scalpore è stata la decisione di far uscire il film in contemporanea sulla piattaforma e in sala, infrangendo la regola per cui bisognerebbe attendere 90 giorni – la cosiddetta «finestra distributiva» – tra la proiezione al cinema e l’arrivo sullo schermo di casa. Nel 2017, il già citato Okja e The Meyerowitz Stories, in concorso al Festival di Cannes, sono stati contestati non solo dagli esercenti francesi, ma dallo stesso presidente della giuria Pedro Almodóvar. Nel 2018 le cose sono andate anche peggio, con l’annuncio di Ted Sarandos, il capo dei contenuti di Netflix, del ritiro di tutti i prodotti del brand dal festival. Il motivo? Il direttore della manifestazione francese, Thierry Frémaux, di fronte alle polemiche dell’anno precedente ha dettato delle nuove regole per la manifestazione: solo i film con distribuzione nelle sale francesi possono accedere alla competizione principale del Festival. Per Netflix, una faida con il festival cinematografico più prestigioso del mondo si è rivelata una ghiotta opportunità di visibilità: «Il festival ha scelto di celebrare la distribuzione piuttosto che l'arte del cinema» ha dichiarato Sarandos. «Noi invece siamo al 100% per l'arte del cinema». Il messaggio sottinteso è chiaro: anche se molti cinefili sono preoccupati dal cambiamento che stiamo provocando nel sistema, in realtà supportiamo un cinema di qualità per le masse. E la sua forza, al di là delle valutazioni critiche, rimangono i dati: nei primi quattro mesi del 2018 Netflix ha prodotto lo stesso numero di film realizzati dai sei maggiori studi cinematografici messi insieme. Ed entro la fine dell'anno, ne avrà distribuiti circa 60.