Baglioni parla oggi alla nazione. I cantanti sono in città, la stampa in soffitta, e le canzoni pronte al vaglio dell'organo supremo in musica: l'orecchio
“Matteo non mollare”: canta Matteo Salvini, dirige l’orchestra il gazebo antistante la Coop, proprio all’uscita dell’autostrada. Sanremo ci accoglie così, con un cartellone e tanti amici intorno che richiamano alla mente una sanremese polemica sui migranti ora sopita, ma che fa preoccupare. Perché Claudio Baglioni, uomo mite e al limite un po’ autocelebrativo, è uno che porterebbe scompiglio al massimo cantando ‘Questo piccolo grande amore’ sul palco di un centro sociale.
Il direttore artistico parlerà questa mattina alla nazione dal ‘Roof’ (tradotto: “soffitta”) del Teatro Ariston, tempio della canzone italiana. Ieri sera, al consueto galà della stampa tutta in ghingheri, contrariamente allo scorso anno, il Claudio nazionale non si è visto e con lui nemmeno Bisio e Raffaele (che è Virginia, donna). Il lavoro di penne, pennette, tablet e teleobiettivi è spostato ad oggi.
Da qualche anno a questa parte, quando cioè questo rispettoso quotidiano ha deciso di seguire Sanremo in tutta la sua straripante programmazione parlando però solo di musica (per il gossip ci sono i collegamenti pomeridiani in tv da via Matteotti) è divenuta abitudine il riassumere gli eventi musicali che ci hanno portato sino a qui, con una sensazione di estate che è finita e di scuola che ricomincia (anche se è febbraio). Almeno per chi fa musica, o per chi ne è soltanto affascinato, Sanremo fornisce le indicazioni di massima su dove siamo, cosa facciamo e dove stiamo andando. E questo nel bene e nel male.
È stato l’anno dei 5 Stelle al governo, che hanno consegnato la nazione alla Lega; l’anno di Cristiano Ronaldo alla Juventus, di Mogol alla Siae, della trap a Bellinzona; l’anno di De André (che nella fiction Rai dedicatagli ha un incomprensibile accento romano) e l’anno di The André, giovane mascherato che ha la stessa voce di Faber, ma canta i testi della trap; l’anno di Giusy Ferreri, la Amy Winehouse di Abbiategrasso, che ha reso omaggio con il foglio davanti ad Aretha Franklin in piazza a Riccione (la Motown, o i Blues Brothers, le facciano causa); l’anno di Noemi che canta “Le stelle sono tante, milioni di milioni” per un noto marchio di salumi, l’anno di Chiara Ferragni – che con la musica c’entra perché coniugata Fedez – che ha griffato l’acqua Evian per molti euro a bottiglia (in rete qualcuno chiede se, una volta bevuta, è obbligatorio espletare la minzione seduti su ceramiche di lusso, o va bene anche il bagno pubblico).
È stato l’anno dell’addio tra Matteo Salvini ed Elisa Isoardi, che con la musica c’entra perché le parole dell’addio al ministro le ha prese da una canzone di Gio Evan, cantautore eremita che chiede, a chi lo accusa di essere leghista, di essere lasciato in pace. È stato l’anno di Asia Argento, che con la musica c’entra perché dopo il suo ‘Total Entrophy’ del 2013, la “grande attrice, regista, piena di talento” (cit. Vincenzo Mollica) è tornata al canto per un duetto con gli Indocine, storica band francese. È stato l’anno dell’outing di Marco Carta e dell’autobiografia di Michele Torpedine, manager de Il Volo che ne ha dette di cotte e di crude (tranne che su Il Volo). È stato l’anno di Anastasio, rapper col nome da Aristogatto che ha vinto X-Factor, di Irama che ha vinto ‘Amici’ dopo essere stato a Sanremo (2017) e adesso a Sanremo ci torna. L’anno di Sfera Ebbasta, trapper per andare a vedere il quale una manciata di teenager ci ha rimesso la giovane vita. “Il 2018 è stato un anno ricco di emozioni per me, ci vediamo ai concerti in giro per l’Italia!”; “Tagga un artista che ha spaccato più di me nel 2018!”, ha scritto per festeggiare l’anno nuovo. Per compensare, il 2019 si è aperto con la diatriba tra opinion dancer Parisi-Cuccarini e con l’elezione di Lino Banfi ad ambasciatore dell’Unesco (e la rete adesso vuole Pierino presidente degli Stati Uniti con Edvige Fenech first lady).
È vero. L’Italia per una settimana si concentra sull’effimero. E l’effimero in musica, a Sanremo, ha avuto molte cadute di stile. Ne abbiamo scelte tre: 1. Povia, che dopo i bambini e i piccioni, nel 2009 cantò che dall’omosessualità si può guarire in ‘Luca era gay’, dove la cosa veniva spiegata con “mia madre mi ha voluto troppo bene” e “mio padre non prendeva decisioni”; 2. Al Bano e Romina, che già nel 1989, ben prima di Al Gore, sensibilizzavano la popolazione mondiale sui pericoli causati dalle variazioni climatiche in ‘Cara terra mia’ (“Il mare sta morendo di dolore, i fiumi di vergogna e impurità. Quel buco nell’ozono fa rumore, che cos’altro poi succederà?”), così come sul littering (“Nei tuoi giardini i fiori sono già siringhe, vetri e oscenità”). E siccome non c’è due senza (i) tre, ecco al numero 3 il trio Pupo-Emanuele Filiberto-Luca Canonici in ‘Italia amore mio’, nella quale al nipote dell’ultimo re di Casa Savoia è pure dedicato un verso (“Tu non potevi ritornare pur non avendo fatto niente”). Quella sera del 2010, quando ‘Come foglie’ di Malika Ayane venne estromessa dal podio per fare posto a un triplice episodio di cattivo gusto, l’orchestra gettò gli spartiti sul palco, traducendo in palle di carta quelle giranti del pubblico, e più in generale l’onta nazionale di un’Italia musicalmente offesa come si offendono i napoletani negli stadi di calcio e nessuno fa nulla.
Sanremo sarà pure Sanremo, luogo rinomato di villeggiatura d’estate, zuccheroso involucro d’inverno. Ma anche quest’anno Baglioni ci mette la faccia, e il tempio della canzone leggera italiana è inviolabile. Perché, quando ben fatta, la melodia italica non ha mai fatto male a nessuno: i gay vivono bene anche senza Povia (che, alla fine, quella canzone gli si è ritorta contro), la nazione è sopravvissuta al nipote del re che canta, e il mondo continua a girare anche se Al Bano e Romina proprio non ce l’hanno fatta a tappare il buco dell’ozono. E se pure le canzoni non hanno salvato l’Italia come Live Aid non ha salvato l’Africa, in questo spicchio d’Italia affacciato sul mare dei cantautori si ascolta da molti anni musica suonata dal vivo, quell’esperienza che per l’inglese Joe Jackson “più ci avvicina al divino”, ammesso che il divino esista. E se anche il divino fosse una soluzione di comodo per non tagliarci le vene con la puntina del giradischi (alla puntina del giradischi si sopravvive, l’abbiamo scelta apposta), resta l’esperienza umana dell’ascolto. E l’esperienza di ascoltare musica non ha prezzo. Per tutto il resto, c’è ‘Uomini e Donne’.