Culture

Baglioni, a prescindere

Quella sua poltrona scomoda
16 dicembre 2017
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A lungo unico depositario del mal d’amore (e di quello in riva al mare), il cantautore romano è colto musicista assai prima che personaggio. Dal 1970 di ‘Notte di Natale’ al 2016 di ‘Capitani coraggiosi’, e nel giorno dell’annuncio dei cantanti in gara, ecco la storia di un caposcuola oggi direttore artistico di Sanremo, ruolo scomodo in Italia quanto la panchina della Nazionale.

1. Il pessimismo baglioniano

“E per tutti 'Agonia'”. In ‘51 Montesacro’, intermezzo autobiografico che lega i brani dell'album 'Strada facendo' (1981), Claudio Baglioni ricorda quel soprannome che lo accompagnò per i primi anni di carriera, nato un po' per gli occhiali spessi un dito (“Il più bravo a scuola, quattr’occhi e mezzo naso”), un po' per lo struggimento d'amore del quale è stato per molto tempo depositario e unico autorizzato. Fino alla fine del secolo scorso, infatti, i teenager di ieri (50enni di oggi) erano soliti inneggiare a tutta una serie di disastri sentimentali, da ‘Fiori rosa fiori di pesco’ (1970, Battisti, il lasciato va a casa della lasciante e ci trova l’altro) a ‘Questo piccolo grande amore’ (1972), dove l’amore – grande o piccolo che fosse – era già finito (“Ed io, io non lo so quant’è che ho pianto”). Baglioni c’era andato giù pesante già agli esordi in ‘Notte di Natale’ (1970): nevica, in cielo nemmeno una stella cometa, lei ha bidonato il cenone e il male di vivere esplode nel verso “Dio, tu stai nascendo e muoio io”. Ascoltata la notte della Vigilia, peggio ancora se la fidanzata storica vi ha lasciati a Pasqua, il rischio di ateismo è alto.

‘Amore bello’ (1973) è teatro dell’ultimo ballo (“Fra poco andrai, un lento, l’ultimo oramai”); in ‘E tu’ (1974), sebbene lei stia “scoppiando dentro il cuore” di lui, lui si chiede “che cosa mai farei se adesso non ci fossi tu” (qualcuno che esplode dentro il cuore tuo dovrebbe rappresentare la migliore delle certezze. E invece il cantautore si fa delle paranoie). L’incipit “Passerotto non andare via” di ‘Sabato pomeriggio’, stesso anno, dice già tutto. Come già tutto dice il titolo ‘Solo’ (1977), brano dal quale emerge il preoccuparsi di lei, l’abbandonante, quando quello grave è lui, l’abbandonato (“Non darti pena sai per me, mangia un po' di più che sei tutt'ossa”, che equivale a “Ho parlato al suo ragazzo e l'ho convinto a ritornare da lei”, l'amore al tempo dei ‘Servi della gleba’). In 'E tu come stai?' (1978) va in scena il pensiero fisso dell'altro con lei (“Chi ti accarezza stanco?”, dove “stanco” a noi è sempre parso più lascivo di “arzillo”); in ‘Amori in corso’ (1985, da ‘La vita è adesso’), l’amore non è mai cominciato (“Ancor prima di trovarti, forse ti ho già perso”).

Tardivamente premesso che quanto sopra è di qualità artistica eccelsa e che in questo pregevole mal de vivre ci siamo cullati con un certo piacere autolesionistico, il Baglioni pessimista andrebbe ascoltato quando nella vita si hanno le prime sicurezze, una minima autostima e, soprattutto, una volta superati l’idealizzazione della figura femminile, le pretese salvifiche e i presunti poteri divinatori. Soltanto allora si potrà soffrire in modo costruttivo ascoltando ‘Mille giorni di te e di me’ (1990) e i cocci rotti di una storia che “va a puttane, sapessi andarci io”, per poi passare a un capolavoro del mal d’amore – nessuna ironia, di capolavoro si tratta – intitolato 'Fammi andar via' da ‘Io sono qui’ (1995), grido disperato di chi chiede alla donna della sua vita – lei, evidentemente, ha cambiato idea – di aiutarlo a dimenticarla: “E se andrai lontano, fa che non sia troppo fuori mano, o trova un posto irraggiungibile”. Esiste modo migliore per descrivere un addio?

2. I ganci in mezzo al cielo

Amori in corsa o sul binario morto, Claudio Baglioni ha avuto quel dono di pochi di catturare l’epoca, la generazione, l’immediato, l'istante. Come quello che chiude 'Avrai', scritta per il figlio Giovanni nato nel 1982 (oggi virtuoso della chitarra acustica), al quale il padre augura “una radio per sentire che la guerra è finita”. Gli anni 80 di Baglioni erano iniziati con la consacrazione data da ‘Strada facendo’, canzone e album del 1981 prodotti da Geoff Westley (già col Battisti di ‘Una giornata uggiosa’, oggi nella commissione artistica di Sanremo). Quel “gancio in mezzo al cielo”, che i più intraprendenti hanno inseguito e i pigri atteso, ha affascinato un po’ tutti. Anche l’autore de ‘La forza mia’, brano con il quale il talentuoso (da talent) Marco Carta vinse un Festival urlando “Tu sarai la forza mia, il mio gancio in mezzo al cielo”. Che in musica è un po’ come in poesia ‘prendere in prestito’ versi di Ungaretti (“Tu sarai una tipa buia, ma a volte t’illumini d’immenso”).

Arrangiato da Celso Valli, con la London Symphony Orchestra registrata ad Abbey Road, ‘La vita è adesso’ (1985) contiene un altro (omonimo) inno. Il “gancio in mezzo al cielo” diventa l’invito a “non lasciare andare un giorno per ritrovar te stesso” (il pigro non raccoglierà, l’intraprendente sì). Nel testo, uno dei più intensi momenti d’intimità: “e tu che mi ricambi gli occhi in questo istante immenso, sopra il rumore della gente, dimmi se questo ha un senso” (oggi un rapper scriverebbe “si tromba”). In coda all’album c’è ‘Notte di note, note di notte’, da cui un congedo lungo 5 anni; in mezzo, ‘E adesso la pubblicità’, sul tema del rimbecillimento da tv molto prima dell’avvento dei format di Maria De Filippi. Su tutte, ‘Uomini persi’, amara e a suo modo anticipatrice riflessione che tutti – anche “quei disperati che seminano bombe tra poveri corpi, come fossero vuoti a perdere” – sono stati bambini, e, almeno per poco, innocenti.

3. ‘Oltre’ l’amore

Al Comunale di Torino, nel settembre del 1988, il popolo gridava Vasco con la stessa rabbia con la quale anni prima si gridò “Barabba”. Guardando alla scaletta, al tempo della data italiana di “Human Rights Now” – concertone in favore di Amnesty International – il rocker di Zocco rispetto al Baglioni non aveva né una ‘Uomini persi’ (vedi punto 2), né una ‘Ninna nanna nanna ninna’, la guerra vista da Trilussa e messa in musica (la gente che “se scanna per un matto che comanna” e per “un Dio che nun se vede”). Si trattava di suonare per i diritti dell'uomo insieme a Bruce Springsteen, Peter Gabriel, Sting, Tracy Chapman, Youssou N’Dour, e a 'Strada facendo' qualcuno avrebbe preferito 'Bollicine'. Baglioni fu oltraggiato in modi che YouTube non può raccontare, grazie (si presume) a un accurato lavoro di rimozione. Ma noi, tra quegli 80mila – piedi nella cartapesta per via del lavoro congiunto di volantini pacifisti, docce refrigeranti e primi venti autunnali – vedemmo volare le arance sul palco. A poco servì Peter Gabriel, nato in terra di hooligan, a placare gli ultrà.

Quanto sia pesato quel pomeriggio torinese sull’anno trascorso tra l'annuncio e la pubblicazione del nuovo album ‘Oltre’ non è dato sapere. Se anche si fosse trattato di perfezionismo, per svoltare non basta mettere fuori la freccia, bisogna prima avere la patente. E Baglioni si dimostrò patentato. Non riuscendo a comprendere quella pantagruelica raccolta di pensieri, parole, opere senza alcuna omissione, parte della critica pensò fosse il caso di stroncare a prescindere, complice un singolo non trainante (‘Dagli il via’). Oggi che il doppio album è ritenuto la vetta di Baglioni – registrato negli studi di Peter Gabriel con un viavai di turnisti come Steve Ferrone, Tony Levin, Paco De Lucia, Manu Katche e molti altri – si può rileggere un sottotitolo del critico Marco Mangiarotti che accolse il disco così: “il discusso ritorno di un popolare cantautore che crede di essere un poeta” (l’articolo è peggio). 'Oltre' è opera eccelsa, fosse solo per Pino Daniele in ‘Io dal mare’ e Mia Martini in ‘Stelle di stelle’, atipico duetto jazz in cui i duettanti viaggiano tutto il tempo separati, per incontrarsi sulla parola “voce”, alla fine di tutto.

Cinque anni dopo, Baglioni pubblica ‘Io sono qui’, dopo il quale tutto è un secondo indietro nell'orologio biologico del cantastorie. In mezzo a singoli riusciti come ‘Bolero’, vive una colta citazione di Libero Bovio chiamata ‘Reginella’. ‘Le vie dei colori’ è il fulcro di un live chiamato ‘Attori e spettatori’ che riempie due volte l’Olimpico, e San Siro. Capace per primo di smontare la sacralità dell’artista, per cantare debitamente riarrangiate ‘Heidi’, ‘Sandokan’, ‘Pippi Calzelunghe’ e le sigle di ‘Canzonissima’, nel ‘97 Baglioni è il juke-box umano di un contenitore tv sul modernariato chiamato ‘Anima mia’. Da lì, un cd di tutto il meglio (‘Anime in gioco’). Il ‘99 è l’anno di ‘Viaggiatore sulla coda del tempo’, dal quale la compagnia telefonica Omnitel si accaparra ‘Cuore d’aliante’, rendendola per sempre spot. L’album è chiuso da 'A Clà', il Baglioni artista che parla a sé stesso uomo, ricordando l’attimo in cui i due Claudio si sono separati per sempre (“Tu si che eri un re, mica io”). La canzone chiude un ciclo nel quale ‘Sono io (l’uomo della storia accanto)’ suona come un dignitoso effetto Doppler.

5. Perché Baglioni è Baglioni

Il fabbricatore di inni generazionali si è fermato a ‘Tutti qui’, da uno dei molti live da perdere il conto. L’ultimo Baglioni inedito è in una serie di brani sdoganati online per quella teoria tanto cara a Vasco Rossi che l’album è una cosa superata (che a noi suona come “non ho più la vena creativa di una volta”). Abituati al silenzio nel quale di 5 anni in 5 anni avevamo atteso il suo ritorno con un disco capace di far dimenticare il precedente, nel 2016 l’ennesimo live ha fermato nel tempo l’esperienza ‘Capitani coraggiosi’ insieme a Gianni Morandi, con il Baglioni – un tempo misurato – a chiudere ogni canzone con l’acuto, in una gara a chi ce l’ha più lungo (l’acuto). Disputata, per altro, con se stesso. L’ostentazione di fiato rievoca il miglior (peggior) Claudio Villa, che su ‘Granada’ andava a caccia dei bicchieri lasciati intatti da Caruso. Più che in gara per il gorgheggio, si rivorrebbe il Baglioni chino su un altro ‘Oltre’, come il Concato di ‘Tutto qua’ che nel 2011 sforna l’album perfetto quando meno te l’aspetti.

Nell’Italia che celebra ‘Gelato al cioccolato’ e non ricorda ‘Tamburi lontani’, prima che il Festival-tritacarne provi a ridurre in poltiglia la storia di un musicista come pochi (lo si ascolti nel live di Napoli reggere da solo al pianoforte un’intera carriera), e mentre si consolidano le incertezze di Mario Luzzatto Fegiz che sono pure le nostre (“non ho niente contro Baglioni a Sanremo, ho solo paura per lui”), ci sembrava giusto ricordare su queste pagine la grandezza di un grande. A prescindere.


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