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Le ingiustizie dell’acqua e la mitigazione impossibile

Il professor Andrea Rinaldo, vincitore dello Stockholm Water Prize, aprirà domani il ciclo di incontri ‘Emergenza Terra’, dedicato a clima e conflitti

Eventi estremi come la tempesta Boris sono sempre più frequenti. Nel riquadro Andrea Rinaldo
(Keystone/EPFL)
24 settembre 2024
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I cambiamenti climatici sono un’emergenza, anche se la percepiamo come tale solo di fronte a eventi estremi, come le alluvioni che hanno colpito anche il Ticino, che tuttavia rischiano di darci una visione limitata di quello che sta accadendo. Un orizzonte più ampio lo troviamo nei cinque incontri che compongono la quarta edizione del ciclo di conferenze pubbliche “Emergenza Terra” organizzato dal Dipartimento ambiente costruzioni e design della Supsi. Il primo di questi incontri, domani alle 18.30 nella Sala polivalente del Campus Supsi di Mendrisio, sarà incentrato sull’acqua e avrà come ospite Andrea Rinaldo. Professore di costruzioni idrauliche all’Università di Padova, nel 2008 Rinaldo ha fondato al Politecnico federale di Losanna (Epfl) il Laboratorio di ecoidrologia Echo e l’anno scorso ha ricevuto, per le sue ricerche, lo Stockholm Water Prize, considerato “il Nobel per le ricerche sull’acqua”.

Professor Rinaldo, semplificando molto possiamo dire che lei si occupa di acqua. Volendo semplificare un po’ meno, come se ne occupa?

Ci sono molti modi di occuparsi dell’acqua: per i fisici atomici l’acqua sono delle palle e delle molle, perché così sono fatti i modelli; per i chimici è un’altra cosa ancora. Io, da idrologo, mi occupo dei fenomeni macroscopici legati all’acqua e al suo ciclo naturale, ad esempio di piene, di siccità e di una giusta distribuzione dell’acqua, tre aspetti molto importanti, legati tra di loro e da cui dipende lo sviluppo in tutto il mondo.

Già qui vediamo la complessità del tema, con fenomeni come le piene e la siccità che sono naturali, per quanto ci sia una componente umana…

Stavo appunto per intervenire, perché l’accelerazione del cambiamento climatico non è naturale, è nostra.

Sì, diciamo naturale come fenomeno, non come cause. Se parliamo di equa distribuzione dell’acqua, arriva tutto il problema di definire cosa sia giusto.

Quando si parla di giustizia distributiva, si pensa subito e giustamente alla disponibilità di acqua pulita per tutti. Ma questo tema riguarda anche l’Emilia Romagna, colpita per la seconda volta nel giro di un anno: per questo dicevo che piene, siccità e giusta distribuzione dell’acqua sono tre questioni legate tra di loro.

L’idrologia, o meglio l’ecoidrologia, che approccio utilizza?

L’ecoidrologia – quello che ho creato all’Epfl credo sia stato il primo laboratorio a usare questo nome e che a fine settembre lascerò per raggiunti limiti di età – è un campo di studi che io e altre persone in giro per il mondo ci siamo un po’ inventati e studia i controlli dell’acqua sulle comunità vive.

In passato gli ecologi si sono occupati della diffusione e distribuzione di specie viventi, ma con una conoscenza limitata delle caratteristiche precipitazioni. L’idea è che bisogna conoscere l’ecologia e bisogna conoscere l’idrologia per occuparsi ad esempio di come i caratteri erratici delle precipitazioni influenzano la distribuzione della biodiversità e le invasioni biologiche – inclusa quella del Neolitico che ha portato Homo sapiens a colonizzare il mondo. In questi ultimi anni svizzeri mi sono concentrato in particolare sulle malattie legate all’acqua, quelle in cui o l’ospite intermedio o l’ospite definitivo o una parte del ciclo della malattia si svolgono nell’acqua. Lo Stockholm Water Prize, il premio che ha contribuito a cambiare un po’ le cose, mi è stato dato proprio per lo studio delle reti fluviali come corridoi ecologici.

Cosa intende con ‘corridoi ecologici’?

Quello che dicevo prima: come l’acqua influisce sulla distribuzione della biodiversità, sulla diffusione di malattie e sulle invasioni biologiche. Si chiamano corridoi ecologici proprio perché conducono specie in giro per il mondo.

Mi sembra di capire che è un concetto per così dire neutro: in questi corridoi passano malattie mortali e specie utili.

Certo. Non c’è mai un giudizio: gli strumenti sono quelli, neutri, della scienza. Anche se alla fine emerge la mia formazione da ingegnere, perché in fondo c’è sempre qualcosa di utile da fare. Io ho fatto il teorico, occupandomi di studi teorici di matematica applicata, ma ho anche fatto lavori sperimentali di laboratorio e molti studi sul campo: quando studiavo la bilharziosi o schistosomiasi (una malattia causata da parassiti che vivono nell’acqua, ndr) siamo stati per anni in Burkina Faso e in Senegal; quando studiavo come si propaga il colera, appena è partita l’epidemia a Haiti ci siamo precipitati lì per studiare e misurare la diffusione della malattia.

Può magari dirci qualcosa sul colera a Haiti?

Certo. Haiti è il Paese più povero al mondo, per vicende politiche che l’hanno vessata nei tempi. Nel 2010 Haiti è stata devastata da un terremoto terrificante che ha distrutto quel poco di infrastrutture che rimanevano nel Paese. Le Nazioni Unite inviarono delle Peacekeeping troops per supplire in qualche maniera a queste mancanze e alcuni di questi soldati erano nepalesi ed erano portatori sani di colera, cioè avevano la malattia ma non presentavano sintomi. Il loro campo era vicino al fiume Artibonite, unica fonte di risorse idriche per le comunità della zona. Mancando un sistema di trattamento delle acque reflue è finito tutto in questo fiume, incluse le escrezioni di questi soldati che avevano una carica batterica molto alta. È quindi partita una infezione che ha coinvolto tutta la popolazione di Haiti che da duecento anni non conosceva il colera e non aveva quindi nessuna forma di immunità acquisita.

L’acqua qui è stata fondamentale perché il patogeno del colera vive nell’acqua e se tu quell’acqua la usi per tutto, non c’è una profilassi adeguata, non c’è informazione succede il disastro che è successo, con una mortalità molto alta.

Abbiamo imparato qualcosa da questa epidemia?

Abbiamo imparato a studiare come si propaga la malattia, sviluppando i cosiddetti modelli spazialmente espliciti nei quali si tiene conto della mobilità delle persone. Sappiamo da tempo che la chiave per ridurre le infezioni è l’isolamento e a Haiti, Paese come detto poverissimo nel quale l’accesso all’acqua pulita e sicura è limitato a pochi privilegiati, tutti hanno un cellulare e questo ci ha permesso di tracciare i principali movimenti della popolazione e confrontarli con i percorsi di evoluzione delle malattie, permettendoci di valutare alternative nelle misure di prevenzione.

Ma ci sono anche malattie meno note del colera: ho già citato la bilharziosi o schistosomiasi che nell’Africa subsahariana e in altre regioni del mondo colpisce un numero inaccettabile di persone. Anche questa malattia è portata dall’acqua: basta bagnarsi con dell’acqua contaminata e questi vermi piatti entrano nella pelle e si innestano nell’apparato digestivo. Parliamo di una malattia che rinforza la povertà, perché può provocare ritardi cognitivi importanti.

Questa relazione tra comportamento delle acque correnti e fenomeni ecologici sta diventando sempre più importante, anche grazie alla visibilità data dallo Stockholm Water Prize.

La sua conferenza a Mendrisio arriva pochi giorni dopo l’alluvione in Emilia Romagna. Anche qui abbiamo due fenomeni diversi ma legati, il cambiamento climatico e la gestione del territorio.

Il titolo della mia conferenza è “Il governo dell’acqua nel mondo che cambia” e l’accento è sul mondo che cambia. La rapidità dei cambiamenti che stiamo osservando nelle precipitazioni eccetera è il prodotto del riscaldamento globale, cioè della febbre del pianeta come la chiamava James Lovelock, ed è chiaramente di origine umana.

Queste temperature sempre più alte che vediamo e misuriamo con migliaia di strumenti in giro per il mondo, hanno dei riflessi clamorosi sulla distribuzione dell’acqua. Per ogni grado in più, l’aria tiene circa il 7% in più di vapore acqueo, il che significa molta più acqua e quando questa aria calda incontra un fronte freddo, significa precipitazioni erratiche, localizzate e più intense, quelle che adesso chiamiamo “bombe d’acqua”.

Piene che avevano una ricorrenza centenaria sono adesso molto più frequenti perché il clima cambia rapidamente. E questo vale per le piene e vale anche per la siccità.

Il totale delle precipitazioni quindi non cambia di molto, ma passiamo da una situazione con precipitazioni distribuite regolarmente durante l’anno a periodi prolungati di siccità interrotti da nubifragi. Di fronte a tutto questo noi cosa possiamo fare? Di solito si parla di adattamento e di mitigazione.

Sì, però mitigazione vorrebbe dire ridurre la concentrazione di gas serra, cosa che richiede un accordo globale che credo sia difficile da ottenere. Non ci resta quindi che l’adattamento: costa più della mitigazione, ma è l’unica soluzione possibile dal momento che non riusciamo a convincere il Sud del mondo, che comincia a stare meglio, a non usare più risorse di quelle che utilizzano adesso.

Credo che sia un’ipotesi sensata immaginare che la mitigazione non si possa fare, a livello globale, perlomeno per un secolo. Abbiamo quindi l’adattamento, cioè immaginare quanto peggio le cose potranno andare e prepararci: per le piene, per l’acqua distruttrice, si tratta di ripensare la difesa idraulica con criteri completamente diversi; per la siccità, per l’acqua salvifica, una cosa da fare sarà sicuramente chiedervi quali forme di agricoltura saranno ancora possibili.

L’adattamento però non esclude la mitigazione.

Molti contestano questo mio atteggiamento, ma io sono convinto che la mitigazione non possa essere considerata la vera soluzione dei problemi. Il consumo di acqua, come il consumo di energia e il consumo di risorse in generale, è legato al grado di sviluppo economico e sociale: appena si comincia a stare meglio, si consuma più acqua e più energia e come fai a spiegare a un miliardo di indiani che non devono usare l’aria condizionata?

Sia chiaro, le energie rinnovabili sono fondamentali e vanno incoraggiate in tutti i modi, ma io ho l’impressione che il Nord del mondo sulla necessità di ridurre le emissioni faccia un po’ quello che dice “armiamoci e partite”. Non possiamo pretendere che la gente stia male o che sia povera per farci un piacere.

Senza pretendere di essere particolarmente profondo, credo sia prudente immaginare che la mitigazione sia impossibile e quindi certamente investire nelle rinnovabili e fare tutto il possibile, ma senza l’illusione che questo risolverà tutti i problemi.