Intervista a Daniele Baglioni, ospite domani pomeriggio di un incontro dedicato alle fànfole di Maraini, a margine della mostra al Musec di Lugano
La più celebre è ‘Il lonfo’, resa popolare da Gigi Proietti a ‘Parla con me’ su Rai Tre e musicata da Stefano Bollani e Massimo Altomare, ma c’è anche il ‘giorno ad urlapicchio’ “col cielo dagro e un fònzero gongruto” o il Trònfero che “s’ammalvola in verbizie” in ‘Via Veneto’. Sono le fànfole, per “poesie metasemantiche” ideate dallo scrittore, etnografo, orientalista, alpinista e fotografo Fosco Maraini. In occasione dei vent’anni dalla morte, avvenuta nel 2004, il Museo delle culture di Lugano dedica – fino al 19 gennaio 2025 – una bella e ampia mostra al Maraini fotografo; tra gli eventi che accompagnano l’esposizione, un incontro che si terrà domani, martedì 18 giugno, alle 18 al Parco Ciani di Lugano in collaborazione con la Biblioteca cantonale, dedicato appunto alle fànfole. Insieme all’attrice Margherita Coldesina, saranno ospiti lo scrittore Paolo Albani, autore di ‘Aga magéra difúra. Dizionario delle lingue immaginarie’, e il professore di Storia della lingua italiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia Daniele Baglioni.
Professor Baglioni, perché inventare una lingua? Dopotutto, le lingue “naturali” non mancano e anzi, molte stanno scomparendo per scarsità di parlanti.
Restando nell’ambito della letteratura – perché se andiamo sulle lingue ausiliarie, come l’esperanto, non ne usciamo più – ci possono essere molti motivi per cui uno scrittore decide di ricorrere a una lingua inventata. O meglio a un frammento di lingua perché, tranne rarissimi casi come quello molto noto di Tolkien, non abbiamo lingue vere e proprie, ma immaginate solo in parte.
In alcuni casi è un’esigenza di verosimiglianza e questo avviene soprattutto nei racconti o nei romanzi fantastici o fantascientifici: nel momento in cui si presenta un mondo nuovo, un mondo immaginario, chiaramente bisogna anche dotare i suoi abitanti di lingue inesistenti, lingue che non abbiano corrispondenze con appunto le lingue storico-naturali, lingue che abbiano parole ma anche sistemi grammaticali rari o addirittura impossibili. Queste lingue le troviamo non solo nella letteratura fantastica e fantascientifica, ma anche nelle lingue infernali della ‘Commedia’ di Dante, penso al gigante Nembrotto nel XXXI canto dell’Inferno al quale va data una lingua non umana, e quindi Dante inventa “Raphèl maì amècche zabì almi”.
La verosimiglianza non è però l’unico motivo per inventare una lingua.
In altri casi, l’aspetto prevalente è quello della parodia: si prendono in giro lingue che sono realmente esistenti facendone, diciamo, il verso. Ci sono molti esempi nella letteratura rinascimentale e barocca, soprattutto nel teatro. Questo è anche il caso del grammelot della commedia dell’arte, riportato in auge nel Novecento da Dario Fo, con sequenze nonsense nelle quali si possono riconoscere suoni o intonazioni di una lingua naturale, una sequenza che non vuol dire assolutamente nulla, ma che illude lo spettatore che si stia parlando in un’altra lingua.
Infine come motivo possiamo citare il gusto del giocare con le parole e con la lingua, aspetto questo che caratterizza lo sperimentalismo di gran parte della letteratura del Novecento, dove gli esempi di lingue inventate sono soprattutto in poesia. Ed è il caso delle fànfole di Fosco Maraini.
Ecco, cosa sono queste fànfole?
Le fànfole sono una sorta di ‘cold case’ letterario. Sono state pubblicate la prima volta nel 1966 da un piccolo editore barese che si chiamava De Donato, stampate in soli 300 esemplari per amici e conoscenti. Destinate quindi a circolare solo fra pochi, hanno avuto un tale successo con una circolazione quasi clandestina, in fotocopie o recitate durante feste e incontri, durata quasi trent’anni. Nel 1994 l’editore Baldini Castoldi Dalai le ha ripubblicate con il titolo ‘Gnosi delle fànfole’ – il titolo originale era semplicemente ‘Fànfole’ –, perché in quell’edizione c’era anche un commento giocoso, opera però non di Maraini ma di un altro autore, Maro Marcellini. Da lì in poi è iniziata una fortuna pressoché ininterrotta, per cui sono state ripubblicate più volte, nel 2019 da La nave di Teseo, diventando una sorta di classico.
Come si presentano queste fànfole?
Si tratta di una serie di poesie, componimenti brevi in forma di sonetto o in altre forme ma comunque sempre di pochi versi. Costituiscono un esperimento abbastanza unico, perché la parte realmente di invenzione riguarda solo le parole piene, quelle che hanno un significato referenziale come “cane”, “fuoco” eccetera e che, essendo completamente inventate, non riconosciamo. Le parole vuote o grammaticali, quindi articoli, pronomi eccetera, e tutta la morfologia sono dell’italiano. Chi legge, quindi, non capisce nulla, però non ha l’impressione di trovarsi davanti a un’altra lingua, perché la grammatica e anche la grafia sono quelle dell’italiano.
Tecnicamente si tratta di un gergo e, come per i gerghi dei malavitosi o quelli giovanili, sappiamo di trovarci di fronte alla stessa lingua che parliamo noi, ma se non siamo parte del gruppo non capiamo che cosa vogliano dire le varie parole.
Maraini la definisce “poesia metasemantica”.
Nella bellissima introduzione che precede le fànfole la definisce così, come una poesia che va oltre il significato, che supera il significato. In realtà il procedimento adottato da Maraini è piuttosto di tipo perisemantico – o almeno, così mi sono permesso di definirlo in un articolo che ho scritto anni fa. Perché, più che superare il significato, gira tutto intorno al significato referenziale delle parole.
Prendiamo l’esempio più noto, quello del ‘Lonfo’. Non abbiamo nessun elemento per capire che cosa sia un lonfo o, in un’altra fànfola, un fònzero gongruto. Espressioni di questo tipo sono per noi completamente oscure, ma sappiamo quali sono le relazioni tra le parole all’interno della frase e poi in tutto il componimento. “Il lonfo non vaterca né gluisce / e molto raramente barigatta”: da questo capiamo appunto che si tratta di un essere che fa delle azioni abituali e possiamo anche immaginare che siano dei versi. “Ma quando soffia il bego a bisce bisce / sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta”: qui capiamo che, il bego, se soffia, sarà un vento.
Non capiamo le singole parole, ma alla fine riusciamo a dedurre che il lonfo sia un animale: in questo modo Maraini costruisce un testo che ha un suo significato, un significato che rimane molto vago, ma che è perfettamente fruibile da chi legge. Non è una sequenza nonsense, assolutamente incomprensibile.
Un gran lavoro per un esperimento giocoso.
Infatti diceva che la composizione di queste poesie gli portava via molto tempo, il che sembra quasi uno scherzo nello scherzo, ma in realtà è notevole l’abilità con le quali sono costruite.
L’idea delle fànfole, inoltre, è maturata in un contesto tutt’altro che piacevole: nel campo di prigionia giapponese vicino a Nagoya, dove durante la guerra ha passato due anni della sua vita. Nascono quindi come uno sfogo, ma uno sfogo in un momento di grande sofferenza e di grande difficoltà. Nella prima edizione delle fànfole, quella del ’66, è inclusa una fànfola che si intitola ‘Auschwitz’ e che chiaramente mette in scena dei carnefici di esseri indifesi, ma sempre nel linguaggio delle fànfole: non si capisce molto, ma si capisce che ci stanno descrivendo delle torture. Successivamente deve essergli sembrato un esperimento forse troppo audace e nelle edizioni successive ‘Auschwitz’ è stata tolta, per poi rientrare soltanto di recente. Ma questo fa capire, a mio parere, che Maraini aveva intenzione di usare questo linguaggio metasemantico per esprimere l’ineffabile, per quelle situazioni in cui la mancanza di parole si deve non tanto alla fantasia, al gioco, ma appunto all’atrocità di eventi che non possono essere descritti con le parole del linguaggio naturale.