Il Museo delle culture di Lugano dedica una ampia retrospettiva al lavoro fotografico di Fosco Maraini
Chi era Fosco Maraini? Le biografie lo presentano come “antropologo, orientalista, alpinista, fotografo, scrittore e poeta” ed è uno dei rari casi in cui un simile elenco di titoli non è bonaria concessione, ma un piccolo riconoscimento di una vita straordinariamente intensa, iniziata nel 1912 a Firenze – ma la famiglia è di origini luganesi – e conclusa esattamente vent’anni fa, l’8 giugno 2004.
Come celebrare quindi questo anniversario? Il rischio di fare qualcosa di annacquato, cercando di inserire un po’ di cose della sua vita, dei suoi viaggi, dei suoi studi, delle sue ricerche e dei suoi lavori, è più che concreto, ma sarebbe stato un torto a Fosco Maraini, una persona che «approfondiva tutto, perché per lui la conoscenza era il fine ultimo della vita». Così Francesco Paolo Campione – direttore del Musec, il Museo delle culture di Lugano, allievo e amico di Fosco – ha deciso di percorrere un’altra strada. La mostra che si apre oggi negli spazi di Villa Malpensata si dedica a uno specifico aspetto di Maraini: la fotografia.
Questa decisione ha portato, ormai due anni fa, a iniziare un lavoro di ricerca il cui impegno lo possiamo solo intuire guardando la mole del catalogo di oltre seicento pagine, che raccoglie oltre alle riproduzioni delle oltre duecento immagini in mostra, numerosi contributi critici tra cui una antologia di scritti di Fosco Maraini sulla fotografia.
L’esposizione è il risultato di una lunga esplorazione negli archivi fotografici di Maraini, il resoconto di un viaggio tra 75mila negativi dai quali si è partiti per le stampe, cercando il più possibile di avvicinarsi a come Fosco stesso le avrebbe stampate, al suo gusto e alla sua sensibilità artistica, grazie anche al confronto con una trentina di immagini realizzate dal suo stampatore di fiducia. Parte importante di questo lavoro è stata la ricerca di come Maraini ha scattato quelle fotografie, quale pellicola e quale attrezzatura (in alcuni casi realizzata direttamente da lui) è stata utilizzata – scoprendo così che alcune di quelle fotografie, che finora conoscevamo tagliate, erano in formato quadrato (su una di queste, le bottiglie semifuse dalla bomba atomica, torneremo).
Abbiamo detto che la mostra si sofferma su uno specifico aspetto dell’opera di Maraini, ma l’affermazione è imprecisa perché la fotografia di Fosco ci permette di guardare a tutta la sua vita – e le 14 sezioni in cui è suddivisa l’esposizione seguono in parte i suoi viaggi e le sue ricerche, dal Tibet al Giappone. Ma non è solo una contingente questione di trovarsi in una discosta valle del Pakistan e poter così fotografare i Kalash, popolo dedito ad antiche pratiche sciamaniche, o a Gerusalemme poco dopo la Guerra dei Sei Giorni. Come ha spiegato Francesco Paolo Campione in conferenza stampa, un fotografo non può che portare il proprio mondo nella fotografia: se quel mondo è povero, il lavoro del fotografo sarà povero, se quel mondo è ricco – e come detto il mondo di Fosco Maraini era incredibilmente ricco di intelligenza, curiosità, ironia e apertura mentale –, le fotografie saranno ricche.
È bene precisare una cosa. Quelle di Fosco Maraini non sono immagini etnografiche, ma fotografie d’arte. Certo lo sguardo etnografico non manca, perché quello era il suo modo di porsi di fronte al mondo e quelli sono i soggetti di molte delle sue fotografie. Ma, come ha ricordato Campione che quella domanda gliel’ha posta in più occasioni, «Fosco fotografava per il gusto di fotografare», il che spiega come mai (quasi) tutte le fotografie sono in bianco e nero – l’unica eccezione è una piccola sezione dedicata alle acciaierie Falck a Sesto San Giovanni –: è quello il linguaggio della fotografia d’arte.
Un linguaggio nel quale Maraini ha saputo integrare – torniamo al punto di vista dell’etnografo – estetiche e ideologie non solo occidentali. È il caso, ha spiegato Campione, di una delle fotografie che il lavoro di ricerca del Musec ha restituito nel suo originale formato quadrato: alcune bottiglie fuse dal grande calore dell’esplosione atomica a Hiroshima. È una “natura morta” (così recita il titolo), quindi nella piena tradizione occidentale, ma al contempo per un giapponese – o per una persona che come Maraini ha assimilato la cultura giapponese in maniera straordinariamente profonda – una delle bottiglie deformate dal calore ha una specie di lungo naso che ricorda un tengu, una specie di folletto che incontriamo nel teatro popolare giapponese e che porta scompiglio, che rende il mondo un po’ più allegro di quello che è normalmente. «Inserendo quella forma, Fosco alleggerì l’immagine cupa della bomba atomica, portò il sorriso nel momento della tragedia più grande».
“L’immagine dell’empresente. Fosco Maraini. Una retrospettiva”, a cura di Francesco Paolo Campione, presenta 223 fotografie, alcune delle quali inedite, realizzate fra il 1928 e il 1971 in Europa e in Asia. La mostra rimarrà a Villa Malpensata, sede del Musec, fino al 19 gennaio 2025 ed è divisa in quattordici sezioni: Esordi (1928-1937), Segreto Tibet (1937 e 1948), Nostro sud (1946-1956), Approdo in Grecia (1951), I mosaici di Monreale (1951), Un Citluvit atterra in Hokkaidō (1939-1971), L’eterno Giappone (1953-1963), Pescatrici di Hèkura (1954), Karakorum e altre montagne (1937 e 1958-1959), Gli ultimi pagani (1959), Pietre di Gerusalemme (1967), Lettere dall’Asia (1962), Le nuvole (1930-1957) e I colori del fuoco (1956).