La forma, il rettangolo di gioco, è la stessa per entrambi. E per scrivere buone poesie non basta il talento, serve improvvisare all’interno dello schema
Intanto pensiamo a una figura geometrica, pensiamo al rettangolo. Due lati lunghi, due lati corti, figura che si fa da sempre preferire al quadrato con i suoi quattro lati uguali, con troppo capo e troppa coda. Il rettangolo è la forma del campo da calcio, infatti, migliaia di volte abbiamo letto o ascoltato dalle voci dei telecronisti, il rettangolo di gioco. Il rettangolo è anche la forma che quasi sempre hanno i quaderni, i block-notes, i fogli bianchi standard, gli A4. Dove scriviamo, dove giochiamo. Perciò, senza nemmeno dover ricorrere a un’eccessiva enfasi, possiamo dire che la forma – la figura geometrica – dentro la quale si gioca a pallone, sulla quale si scrivono poesie è la stessa. Pensiamo a queste due forme così diverse quando sono vuote e poi pensiamole piene. Lo spazio conta nella prima ipotesi, ma conta soprattutto nella seconda ipotesi, vediamo.
Il campo da calcio quando lo si osserva vuoto – prima di alzare lo sguardo sugli spalti non ancora invasi da gente colorata – è bellissimo, è invitante, carico di aspettative, è uno spazio da colmare. Arriveranno i calciatori, le tribune e le curve si riempiranno, le panchine verranno occupate, ecco l’arbitro, ecco i guardalinee. In quello spazio così aperto e pieno di niente si immagina il futuro, laggiù, prima che tutto avvenga, si ripongono le attese degli appassionati e degli sportivi. L’attesa, per quel che ne sappiamo, è quasi sempre meglio di quello che verrà. Eppure, è su quell’erba non ancora calpestata che speriamo. Una volta sono entrato in uno stadio vuoto e ho camminato sul prato, solo io e chi mi accompagnava, mi veniva quasi da piangere a tutta la bellezza a venire e a tutta quella già consumata.
«Eccomi qui, davanti al foglio bianco. Quante volte, dalla prima? Quante volte ancora, fino all’ultima? Non son balle, scrivere è difficile. Per tutti», così lo scrittore Daniele Del Giudice certifica l’ansia dell’attesa di chi scrive, di chi si accinge a riscrivere. Un’azione, riflette Del Giudice, già fatta, eppure mai uguale, che forse capiterà ancora, che forse non capiterà mai più. Chi scrive, davanti al foglio bianco – al rettangolo di gioco – è nudo, è come sull’orlo di un burrone, è disposto a saltare ma ha paura del vuoto, che è più pericoloso del precipizio. L’ansia così ben descritta da Del Giudice vale per ogni tipo di scrittura e ancora di più per la poesia. Il poeta ha paura che quel foglio bianco mai si riempia, che i versi non tornino mai più. Qualcosa di simile deve provarla il calciatore di talento che finisce in panchina per diverse partite di fila perché l’allenatore non lo ritiene più all’altezza o fuori forma. Oppure quell’altro calciatore capace di lampi di genio a cui però manca la costanza. Ecco, per scrivere buone poesie non basta il talento, serve la costanza, l’applicazione, bisogna essere in grado di improvvisare all’interno dello schema.
Dopo il vuoto del campo, dopo il bianco accecante del foglio non scritto, arriva la partita, arriva il gioco, arriva la poesia ed è qui, a questo livello, che le similitudini tra calcio e poesia aumentano. Non pensiamo a cose del tipo: quell’azione è meravigliosa, sembra una poesia. O anche a descrizioni come: un gol così è come un verso dei più grandi poeti. Le analogie vanno cercate non nei paragoni semplici e spontanei che ogni tanto facciamo nel tentativo di spiegare la bellezza di un gesto sportivo, vanno individuate proprio dove le attività si somigliano, là nello spazio quando si fa pieno.
In una poesia molto bella di Giovanni Raboni, intitolata Zona Cesarini, leggiamo a un certo punto «[…] schemi / non più tardi di ieri ribaditi / nella fantastica pace del ritiro / dal mister […]». Ci appropriamo a nostro uso e consumo di questo gruppo di versi, per andare allo schema, la tattica, la preparazione di una partita. Tutto si prepara prima, tutto però può essere disatteso, nel bene o nel male, Raboni infatti così prosegue: «[…] quando ancora / tutto, anche vincere / / […] sembrava possibile». Quello che farà la squadra di calcio in campo discende dallo schema, dalle idee dell’allenatore, dalle caratteristiche dei calciatori e dalla maniera in cui applicano quello schema, seguono le regole. Quello che farà il poeta sarà osservare una serie di regole, ritmiche, metriche, deve conoscere lo schema. Alcuni calciatori e i migliori poeti sono in grado di uscire dal modello, capaci di disattendere un dettame per inventare, per assecondare l’estro, per lasciare strada al guizzo che faccia sì che un testo normale diventi poesia, che una partita banale, noiosa, a un certo punto si sblocchi. Una frase che suoni in modo meraviglioso, un dribbling, un tiro a girare messo all’incrocio dei pali.
Il calciatore bravo, diciamo pure il fuoriclasse, dotato di visione di gioco, è capace di trovare lo spazio dove compagni di squadra o avversari non vedono null’altro che un muro. Pensiamo a Pirlo, Zidane, Iniesta, solo per fare qualche esempio, all’improvviso, in situazioni di gioco completamente bloccate vedevano lo squarcio, i centimetri esigui in cui passare o far passare la palla, il compagno da mandare nel corridoio vuoto (a quel punto) verso la porta. Ecco dove il calcio somiglia sul serio alla poesia, quando inventa, quando si ricorda i motivi per cui si sta giocando. Lo spazio riguarda di nuovo chi scrive poesie, in due momenti. Dapprima, quando occorre il balzo, la visione di gioco che consentirà a chi sta scrivendo di individuare la serie di parole in grado di illuminare e di condurre i versi fino alla fine. In seconda battuta, quando si deve gestire lo spazio da occupare sul foglio e quello da lasciare. In quel vuoto che non è casuale deve entrare – se il poeta è stato bravo – l’immaginario del lettore. Insomma, per segnare o per scrivere un buon testo poetico occorre la capacità di gestire lo spazio, saper dove mettere il pallone, quando tenerlo, quando liberarsene; quando appoggiare la penna, togliere un aggettivo, fare a meno di qualche parola. Ogni gesto del calciatore deve essere finalizzato al gol, ogni parola scritta deve contribuire alla creazione dell’intero testo poetico; in entrambi i casi bisogna scegliere e tenere separato il superfluo dalla bellezza. Un colpo di tacco inutile non serve a nessuno, un verso in eccesso rovina l’intero testo.
«Adesso silenzio come nel dentro di una perla. / Adesso facciamo bianco». Apre così una bellissima poesia di Giovanni Giudici, in quel silenzio e in quel bianco esiste l’orizzonte di possibilità in cui si muoveranno i calciatori e i poeti, in quell’Adesso si decideranno le sorti di una partita e di una poesia. Il silenzio è quello che avvertiamo prima che accada qualcosa di meraviglioso e – fateci caso – se non lo percepite anche dentro di voi, anche sugli spalti assordanti, l’attimo prima che in campo accada l’incanto. E il silenzio è quello che cerca chi scrive prima di trovare le nuove parole, e che aspetta la lettrice e il lettore, tra un verso e l’altro e appena dopo la chiusa. «Adesso facciamo senza», scrive poi Giudici e allora anche noi così facciamo. Senza.