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Abbiamo tutti il potenziale per spiccare il volo

‘Der Spatz im Kamin’ conclude la trilogia dei fratelli Silvan e Ramon Zürcher, un punto d’arrivo di un’analisi sulla disfunzionalità familiare

Ramon Zürcher
(Ti-Press)
13 agosto 2024
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Sempre più improntati al miglioramento sociale, ci siamo resi progressivamente conto che le famiglie rappresentano dei nuclei che, con i loro rapporti interdipendenti, costituiscono l’intera società umana. In quest’ottica, si può constatare che laddove è possibile crescere serenamente, con dei valori positivi, diventa anche più probabile che le comunità siano solide, unite e pacifiche. Siamo ancora lontani dalla costituzione effettiva di una famiglia modello universale, che non abbia tratti disfunzionali, fatto che potrebbe essere una delle cause determinanti la nostra storia di violenza, tratto comportamentale che ci trasciniamo dietro anche nell’educazione genitoriale. Non si sottolinea mai abbastanza l’importanza di affrontare tensioni e conflitti tra parenti, questioni irrisolte che conducono ad abitudini malsane e che fuorviano l’innocenza, i tempi individuali di crescita, quindi rompono qualsiasi legame, per quanto profondo o genetico sia. Già affermati nel nostro panorama cinematografico, i gemelli Zürcher hanno dunque concluso la trilogia d’indagine sulle relazioni disfunzionali tra parenti, aggiungendo il tassello finale ‘Der Spatz im Kamin’, uno sguardo conclusivo critico e fiabesco, nonché primo film diretto dal solo Ramon Zürcher.

Due giorni della vita di Karen, una donna triste e carente d’affetto da parte del proprio marito Markus e dei propri figli, costretta a relazionarsi con la propria incapacità materna e disturbata dalla visita dei parenti, arrivati a festeggiare il compleanno di Markus, che sconvolgono la già tesa situazione casalinga e portano alla luce una pletora di traumi che si intrecciano e scontrano, rivelando la natura malsana alla base dei rapporti.

Ramon Zürcher: da dove trae l’ispirazione per questa vicenda?

È difficile da dire precisamente, ma questa volta sono insolitamente partito proprio dalla scena iniziale in cucina, e da lì ho costruito tutta la trama. Un processo che mi ha dato la motivazione e l’urgenza di creare un conflitto familiare racchiuso in un’atmosfera passivo-aggressiva, ma anche schietta. Volevo disegnare questi conflitti come un dipinto e sono molto interessato a raccontare il contesto familiare, dove i personaggi sono vicini in quanto fratelli e sorelle, madri e padri. In più, mi sono ispirato alla metamorfosi, per questo motivo è centrale la transizione dei personaggi, narrata creando un ambiente fiabesco, onirico, come se fosse un racconto fantastico.

Tanti sono i temi affrontati, dalla monogamia all’educazione: qual è l’obiettivo finale? Cosa voleva esprimere?

Penso che il cuore del film sia il passero nel camino, animale che in effetti rappresenta per me la libertà, perché detiene il potenziale di volare. Il camino che lo trattiene è la sua impedente gabbia per uccelli, proprio come i membri della famiglia, ognuno dei quali possedente ali, anche se nascoste. Il non librarsi coincide con il divenire della relazione, disfunzionale e tossica, quindi non si può respirare o esprimersi liberamente: sono convinto che una società sana parte da un costruito ambiente familiare positivo, dove gli individui possano crescere e svilupparsi serenamente. Un microcosmo che per me rappresenta l’interezza della vita, ogni persona può essere un passerotto e innalzarsi in volo, quindi il fuoco, motivo ricorrente nel film, trasforma, crea e distrugge, il legno si polverizza e diventa cenere e fumo, creando un opportunità di rinascita, anche nella morte.

Quali sono stati gli ostacoli del processo produttivo?

Avendo molti personaggi in scena, è stato molto difficile mostrare il grado di profondità di ognuno, dei rispettivi conflitti. In più, le persone sul set erano molte e gli spazi piccoli, abbiamo girato 33 giorni di ripresa nell’arco di due mesi, fatto che non ha semplificato la continuità, soprattutto dei parametri incontrollabili, come la crescita dell’erba, oppure i campi che vengono arati o raccolti delle loro risorse. Una sfida per tutti, dal reparto luci, ai costumisti e agli scenografi, quasi talvolta confinati negli spazi, tra attori, bambini e animali. Non da ultimo, era necessario essere meticolosi perché il montaggio era piuttosto blindato, essendo un racconto in tempo reale, quindi abbiamo lavorato sui dettagli, non potendo compiere grandi stravolgimenti della struttura narrativa.

I rapporti tra i personaggi sono malsani e forse avrebbero bisogno di un ausilio medico, un aiuto psicologico, ma non è quello l’obiettivo.

È una storia condensata in due giorni, come fosse un pezzo da camera, dunque l’intervento di uno psicologo sarebbe stato puramente funzionale e, in una situazione squilibrata di questo tipo, è difficile avere le premesse che ciò accada. Era più centrale il lato emotivo; un padre assente anche nella sua presenza e una madre che non riesce a sostenere i suoi obblighi materni, genitori che creano delle condizioni che non favoriscono la richiesta e l’ottenimento di un aiuto medico. Il mio approccio è stato più mentale e astratto, volevo creare una dimensione psicologica, non un dramma sociale ma qualcosa di più onirico e, sostanzialmente, più esistenziale.

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